Pochi dischi ho sentito che, come questo, abbiano l'intensità e l'effetto del disperante abbandono con cui si sorbisce l'ultimo sorso alcolico prima di crollare preda dei fantasmi della mente.
Ad esso ci si affeziona subito, quasi con l'ingenua ed istintiva disposizione di un adolescente, o di chi soffre e si patisce, senza quasi sapere perché, alla ricerca di un'identità, di un nome al proprio disagio interiore.

Sarà per via di quell'esordio tanto disperato quanto accattivante del primo brano, la splendida "Disorder", che rimanda in qualche modo ai baratri/bisogni oscuri ed incomprensibili dell'adolescenza ("I've been waiting for a guide to come and take me by the hand..."), in cui avverti quel desiderio mai sopito di quindicenne di esser preso per mano e di sentirsi guidato e voluto da qualcuno così come è e l'inquietudine esistenziale di Ian Curtis, tutto il suo personale dramma.

Se gli anni Ottanta li ricordi per averli vissuti adolescente ("But I remember, when we were young..."), ascoltando le sonorità di "Unknown Pleasures" (1979) ti scorrono davanti le immagini di feste alternative in qualche cantina, rossetti sbavati, kajal nero e smalti viola, atmosfere dark, tu che sola ti stordivi in un angolo (e in sottofondo, forse, c'era proprio "She Lost Control"), il ricordo di albe alcoliche per strada tra l'altrui schiamazzo sguaiato e tu che pensavi che non ti eri mai sentita così sola e non capìta ("We'll share a drink and step outside / An angry voice and one who cried...").

Ian Curtis quasi non canta, "è", grida, dichiara se stesso ed il suo lucido tormento in un modo disperato e crudo, eppure al contempo così intensamente, dannatamente umano. Ora perentorio e solenne, ora sconfortato e lacerante, egli si fa lucido profeta dell'impossibilità di concretizzare le proprie più intime speranze e del vanificarsi di ogni attesa in un nodo irrisolto di disillusione e sconfitta.

Non c'è da segnalare una canzone sull'altra. Questo disco è un percorso esistenziale assoluto, in cui ogni tappa è necessaria, in un continuum tra disperazione e rabbia, tra dolore ed amarezza.
La musica, sferzante e tagliente, asseconda quasi spettatrice questo viaggio, dipanandosi in un fosco, angosciante gioco di luci violente ed ombre. Impietosa scarnifica le parole e non le avvolge, evoca il silenzio senza dare risposte ad interrogativi primari, che risuonano cupi come l'eco di segnali d'allarme lanciati nel vuoto.
Alcuni passi delle canzoni di questo disco ti restano dentro segnandoti come solchi (in questo senso, la splendida, ormai storica, copertina di Peter Saville diviene una filigrana figurata delle emozioni regalate dal disco): dal pressante "Where will it end?" di "Day of the Lords", al cupo "We were strangers / we were strangers / away too long" di "I Remember Nothing", sino all'ossessivo "I tried to get to you" di "Candidate", spesso ripetuti come uno stillicidio alienante e corrosivo.

Un disco-capolavoro, prima prova di una band divenuta leggenda, e che ti pervade dentro e scava come pochi, vibrando sino all'ultimo con intensità ed energia rari.
Chiunque sappia guardare dentro di sé ed almeno una volta sia riuscito a scorgervi le ombre del mal di vivere, non può prescindervi ed appartenervi.

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