“Il rock'n'roll, vedi, il rock'n'roll è itinerante, precede il concetto di stanziamento, appartiene alla fase nomade dell'umanità. Il rock'n' roll più grande è nel momento in cui i nomadi viaggiano seguendo la via indicata dallo sciamano”

Julian H. Cope, arcidruido.

Arcidruido?

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Julian, Julian...

Sei stato una quasi pop star, poi l'uomo tarataruga, poi un erratico e smandrappatissimo adepto barrettiano.

Mossa numero uno Top of the pops...

Mossa numero due la vertigine psichedelica...

Mossa numero tre il passo umorale e sghembo...

Del resto “l'uomo è per sua natura un viaggiatore serpentino, tutte quelle strade dritte sono solo paranoia”...

Ora però, previa illuminazione, è il momento di essere se stessi. Il sole è l'unico occhio che contempla le cose senza invidia.

Se la creatività oscilla tra luce e ombra, ora è il momento della luce. La luce però non è solo il cielo. La luce è soprattutto la percezione del reale.

Ecco allora la visione di Peggy, la madre terra...

“Ho visto la madre terra, una bellissima dea. Gettava la testa all'indietro per il dolore e la confusione”

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E quei tedeschi pazzoidi dov'è che vagavano? Sulle colline, vero? A guidarli era l'uomo con una visione. Si dice che anche lui avesse visto una dea. E il nome della dea era la ragazza delle stelle.

Si, ma poi perché le colline? Perché quelle erano le colline svizzere, le colline dei maghi. E non pensate vi prego a degli smidollati fricchettoni fuori di testa. Qui si parla di conoscenza intuitiva, di tradizioni millenarie. E comunque, si, alla fine, era una faccenda tipo una testa/un voto, una collina/un mago.

Troppo bello per essere vero? Oh no. La cosa più bella ancora è che era vero sul serio. Che poi quel che venne fuori fu un metodo, una formula. Una cosa semplice, semplice, ovvero: trova il mago, fallo parlare, dai la droga ai musicisti e accendi il registratore. .

Si, lo so caro Julian, questa è la storia che hai raccontato nel tuo libro sul kraut rock. Vien buona anche adesso però. La differenza è che ora le parti le fai tutte tu. Sei infatti sia l'uomo con una visione, sia il mago, sia il musicista.

Aggiungendo, ovvio, lo spirito primigenio, ovvero lo spirito punk, se vuoi fare una cosa falla.

Insomma, ridendo e scherzando, ecco che mi diventi l'arcidruido.

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La visione però non si ferma qui.

C'è ben altro...

Non è più tempo di essere Dioniso, il rock'n'roll deve essere utile. Deve indicare la via..

Ecco che allora le tue personalissime colline svizzere sono i sobborghi di Londra che percorri in bicicletta annotando sul taccuino tutta la desolazione che vedi...

Oh merda, sei diventato un cazzo di cantante di protesta. Anzi no, com'è che dicevi? Come?

Come?

Ah si, “un poeta musicista itinerante”

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“Peggy suicide” è il primo favoloso risultato post illuminazione.

Registrato senza diavolerie e quasi in presa diretta, ha un sapore d'antan e un respiro quasi eroico. Al punto che io lo vedo come una sorta di poema epico cavalleresco a sfondo sociale.

Certo non è esattamente il Cope che ti aspetti o perlomeno non lo era in quel 91 in cui lo ascoltammo per la prima volta.

Non è “Fried”, non é “Droolian”. Eppure è un Cope che più Cope non si può.

Non solo, è un disco sorprendentemente unitario e la sensazione che lascia è quella di trovarsi di fronte a un monolite dove la lunga teoria di opposti riferimenti è piegata a una visione che tutto tiene insieme.

Quasi un milione le schegge che passano lo stesso setaccio: i sessanta, la psichedelia, Scott Walker, il garage, il funk, l'avanguardia, il folk rock, i Fall, Madchester, Lou Reed...

Eppure il risultato è sorprendentemente personale e il modo migliore per dirlo è che “Peggy” è un disco che assomiglia solo a se stesso.

Alla ricetta occorre poi aggiungere un divertito uso di standard e di cliché destinati, ed è questo il bello, a entrare quasi sempre in collisione con l'inaspettato. Insomma le cose opposte devono, se non proprio incontrarsi, almeno sbattere tra loro.

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Il passo successivo è “Jehovahkill”...

Ovvero Robert Greaves che indossa la maschera eterna del rocker...

La maschera è fondamentale, “c'è qualcosa di schifosamente borghese in un gruppo che si esibisce senza abiti di scena”

“Tutti gli uomini primitivi si truccavano. Come puoi conquistare una donna se ti mostri debole e sciatto?”

Il nostro arcidruido infatti se ne va sempre in giro con magnifiche divise d'ordinanza. Si certo, sembra una roba da fumetto, ma il bello è proprio quello.

Poi comincia a riempire di appunti il suo blocknotes. Tutta roba ultra esoterica: culture primitive, mondo pagano, archeologia megalitica.

Si convince che il cristianesimo sia una delle iatture del mondo.

Sulla copertina del disco piazza l'immagine di un antichissimo sito cruciforme. “Manco la croce è roba vostra.”

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“Jehovahkill”

Si parte con una fantastica ballata acida in crescendo, molto, ma molto Peggy style.

Il pezzo dopo ha un fantastico baritonale alla Kevin Ayers e comunque per un po' si va via morbidi, coretti, trombette e appena un filino di stravaganza.

Traccia cinque è dapprima una roba da bardo, ovvero una ballata tesa sopra un ribollire di accadimenti favolosi che nel finale strappa verso il kraut urlante.

Già, il kraut, finalmente il suo cantore se ne serve e ogni volta che accade l'eccitazione è massima. Tra tribalismo parodistico, smaccate citazioni NEU, crasi con la techno, follia al potere.

Poi, ovvio, non mancano le sciocchezzuole adorabili, una è comprensiva di sha la la e di finale bandistico zappiano. Ma il meglio, ora su toni crepuscolari, ora semplicemente magici, il meglio è sempre il bardo...

Vale il discorso fatto per “Peggy”: nonostante la gran quantità di cose tutto è sottomesso alla visione d'insieme. E anche qui siamo sull'epica. Del resto son dischi gemelli, uno è azzurro, l'altro rosso...

Trallallà...

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