Questo disco, l’esordio di una band colossale e fondamentale nella storia del rock, è riconosciuto come il capostipite del Progressive, il punto di partenza di quel genere che fece poi meraviglie nella prima metà degli anni ’70. Uno stile che si poneva come evoluzione del rock verso lidi musicali più maturi e complessi, ricchi di sonorità classiche, oniriche e maestose. Nel disco che lancia il progressive (perché probabilmente non lo inventa del tutto) la complessità predicata trova una forma godibilissima e suggestiva.

I cinque pezzi che lo compongono vanno a formare un blocco emotivo compatto e inscalfibile che trova la sua eccezione proprio nel brano d’apertura, quella feroce “21st Century Schizoid Man” che in ogni caso resta un brano epocale, tagliente attacco alla modernità, in un disco che cerca una via verso il futuro ripescando dal passato. La furia si esprime perfettamente nel cantato isterico ed effettato, nei poderosi slanci di chitarra, nella frenesia ritmica che si trasforma in delirio. Tra le malefiche visioni e i tristi presagi il brano si trasfigura lentamente in una jam furibonda per percussioni e fiati, una assalto frontale al futuro. Riletto a distanza di quasi 40 anni, quel pessimismo risulta quanto meno veritiero; “Nothing He’s Got He Really Needs”. Dopo l’immane brano d’apertura, ci troviamo davanti a tre canzoni molto affini, tre stupendi affreschi dalle tinte brillanti e dolci, molto evocatrici e suggestive.

“I Talk To The Wind” nella sua perfetta sintesi di melodia e fascino strumentale, risulta la composizione più semplice del lavoro, la più orecchiabile ed immediata. Una stupenda ballata per fiati ammiccanti e batteria spoglia; la ricchezza del tessuto musicale è allo stesso modo eccelsa, tra sfumature tenui, splendide atmosfere e luminosi fraseggi di flauto e tastiere.

Il pezzo centrale del disco, probabilmente il migliore dei cinque, è un ingannevole crescendo di emozioni. La stupenda maestosità si alterna ad un ritmo militare coniugato alla melodia eterea è agrodolce, in assoluto il vertice comunicativo; le chitarre squarciano il cielo, la ritmica si impone dirompente, la stasi centrale è lasciata alla chitarra acustica e al mellotron sulfureo. La ricchezza musicale del disco qui si sublima. Un testo magicamente poetico, timoroso e pieno di forza comunicativa dà il tocco di grazia a questo immenso sguardo verso il cielo ed il futuro. "Epitaph" è uno dei brano più belli di sempre (a mio parere).

La bellezza di "Moonchild" è di quelle che fanno male, melodia cristallina e accuratezza strumentale eccelsa; è un crogiuolo di suoni, di tocchi fatati al momento giusto e potenza immaginifica dei testi. Mai il progressive sarà così funzionale al brano e non fine a se stesso. La splendida emozione si tramuta poi in timore nei successivi dieci minuti che portano verso l’atto finale, e definitivo, del disco. Qui si setaccia la mente, si cercano rimandi al passato, sempre in funzione del futuro. L’ultima frase è chiara “Waiting for a smile from a sun child.” Cioè il Re Cremisi che troneggia nell’ultimo brano; capiamo quindi che la lunga deriva psichedelica di “Moonchild” è l’introduzione migliore per l’ultimo atto; nei minuti dilatati cresce l’attesa, le emozioni si fossilizzano ed aspettano solamente l’esplosione finale.

“The Court Of Crimson King” che significa? Un maestoso incedere medievale narrante del primo imperatore dell’età moderna. È racchiusa tutta qui la filosofia dei Crimson (e del Prog); utilizzare gli strumenti del passato in chiave moderna; ossia modernizzare il passato. Il brano si rivela poi bellissimo come tutti, potente ed evocativo.

Questo disco rimarrà nella storia come opera filosofo-musicale eccelsa. Stupenda messa in musica del desiderio di trasformare il rock che ormai era giunto al punto di non ritorno; è l’inizio di un genere che, pur esaurendosi in un lustro circa, porterà nella musica una filosofia diversa che permane tutt’ora; non più musica per i piedi, ma anche per la mente.

Se non è un disco rivoluzionario questo...

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