Mia moglie continua imperterrita a stare male. Tutti i giorni, oggi in particolare. E’ qui accanto che geme sommessamente, si contorce ogni tanto, cambia posizione dal divano alla poltrona alla sedia, si rolla una sigarettina e se la fuma, accende la tele azzerando l’audio quando c’è la pubblicità, la rispegne, si succhia una mentina, beve un sorso d’acqua, tutto questo mentre fa smorfie di dolore ogni tanto.
Soffro anch’io, logico: per il male suo e per il mio senso di impotenza, di avvilimento, di vicinanza prolungata e convivenza annosa con tutto questo disagio, oltretutto ancor privo di diagnosi.
E allora esco. E’ ormai pomeriggio, afferro chiavi e mascherina, infilo il piumino e parto in auto per concedermi qualche ora di break, di distanza fisica, di minima prospettiva con la cattiva sorte che sta toccando a lei e di riflesso anche a me. Aria, aria!.
Dove vado stavolta? Decido in un attimo di puntare in direzione sud, verso quella bella cittadina anch’essa sul mare come la mia, distante una trentina di chilometri (stessa regione, ovvio...). La Qashqai rotola confortevole sull’asfalto intanto che mi rilasso, coltivando il piacere di guidare senza fretta e di girare lo sguardo a destra e sinistra su profili e colori noti e familiari, case distributori negozi rotonde ponti segnali stradali. I punti di riferimento, i paletti della quotidianità e del mondo che va comunque avanti.
Quasi arrivato, decido di fermarmi a quell’ipercoop in periferia, con relativo centro commerciale intorno. Non ci vengo da anni… ne ho una più vicino a casa d’altronde, ma verso nord. Parcheggio, infilo la mascherina ed entro: tanta luce e poca gente in giro. Accedo al supermercato e ne esco dopo cinque minuti, per percorrere coscienziosamente tutti i corridoi del centro i quali offrono le solite boutique… l’ottico la lavanderia e il paninaro, la bigiotteria i cellulari Tim Wind Vodafone e l’edicola. Noto che diversi vani di negozio sono evacuati, specialmente al primo piano dove non gira quasi anima viva: il covid morde, continua a mordere.
Mezz’ora e sono di nuovo al parcheggio in cerca di nuove risorse. Mi viene un’ispirazione e mi attacco al cellulare, dopotutto in questa città ho una coppia di buoni amici. Non ci vediamo da qualche anno, ma insomma ci conosciamo da trenta e, in questa presente urgenza di socializzare e di fare arrivare sera, non ho remore. Mi risponde lei (sfido, ho scelto di fare il suo numero, ho più affinità e trascorsi con lei che con lui), sorpresa e contenta e pronta con una prima battuta ironica, che però neanche capisco fino in fondo. Le dico che sono in zona, mi risponde subito di raggiungerla a casa, però un’ora più in là che adesso ha lezione.
Guadagno intanto il centro, parcheggio vicino alla statale ed a quella rocca poderosa a due passi dal mare. Mi incammino e ben presto spunto da un vicoletto nel mezzo del corso. Mi metto allora a far vasche in su e in giù e poi a destra e a sinistra. Verifico che il novanta per cento dei negozi e della gente in giro sta solo sul corso... nelle vie parallele e trasversali c’è giusto qualche isolato localetto, con quattro gatti dentro a bere qualcosa e parlare. E’ sempre bello esplorare l’ennesimo centro storico sette ottocentesco italico, carino e accogliente; ne abbiamo a migliaia in Italia, tutti diversi e tutti uguali, una ricchezza impagabile.
Gli ultimi venti minuti per far venire l’ora giusta li trascorro nel negozio di dischi quasi sotto casa dei miei amici. Spulcio compulsivamente tutta la merce a disposizione, dalle offerte ai prezzi pieni, dagli italiani agli internazionali. La commessa mi chiede se cerco qualcosa, le faccio intuire che sono uno di quei collezionisti che entrano lì senza avere un’idea di cosa cercare, o meglio con cento possibili soluzioni in merito, difficili però da realizzarsi per chi, a casa, ne possiede già a migliaia di dischi. E non trovo niente di acquistabile, come era prevedibile… ma intanto si è fatto tempo e posso attaccarmi al campanello, appena venti metri più in là.
Il portone scatta, percorro le rampe di scale e varco il portoncino socchiuso. Lei è al tavolo del soggiorno insieme ad una giovane biondina, stanno parlando in francese e guardano nello schermo di un laptop. Ci salutiamo rapidamente, mi dice che hanno quasi fatto, le lascio lavorare e prendo a girare per soggiorno e ingresso, sorpreso dalla quantità di roba ammassata dappertutto: libri riviste vestiti dischi soprammobili borse stracci cuscini cianfrusaglie: accumulo compulsivo… non me l’aspettavo! L’ultima volta che ero stato in quella casa, forse cinque anni prima, non era certo in queste condizioni.
Gli amici sono perfetti per farti vivere con tranquillità delle realtà che a casa tua non riusciresti a tollerare neanche per un giorno… Nel soggiorno di casa mia ci sta un unico mobile per ognuna delle pareti. Distanziati fra loro di almeno due metri. Libri e dischi e raccoglitori e scrivanie sono tutti fuori dai coglioni sul soppalco così che io e mia moglie ci possiamo godere, in perfetta similarità di gusto, la notevole cubatura della stanza e le poche e ben scelte mobilie che essa offre, sulle quali albergano non più di cinque o sei soprammobili fra l’altro. Tutto l’opposto di questa casa insomma, dove faccio fatica anche a trovare un posto per il mio culo su una poltrona o un divano.
Scelgo di restare in piedi e mi metto a sbirciare le pile disordinate di cd incastrate malamente nell’intasata libreria. Scorro una decina di titoli poco significativi per me e poi mi ritrovo in mano “Lizard” dei King Crimson.
Non ce l’ho.
Avevo il long playing, finito insieme a tanti altri nelle mani di un bottegaio, in quegli anni di inizio duemila nei quali intesi di sbarazzarmi di tutto il non tantissimo vinile rimastomi, decisione mai rimpianta. Anno dopo anno ho scrupolosamente convertito in cd gran parte della vecchia discografia, ma per qualche ragione “Lizard” ne è rimasto escluso. E’ perché non ho grandi ricordi di quel disco, vissuto come un passo indietro rispetto ai precedenti due dei Crimso.
Non lo ascolto da decenni, e certo per radio non capita di imbattersi in uno dei suoi brani. Solo due suoi passaggi sono rimasti cementati nella mia mente: l’attacco del riff di mellotron nell’iniziale “Cirkus” e la vocetta dell’ospite Jon Anderson degli Yes su “Prince Rupert Awakes”, il primo movimento della suite finale che intitola il lavoro. Mi suona strano che un simile album si trovi in questa casa… i miei due amici li conosco bene come ascoltatori di musica abbastanza distratti e occasionali; mah, scommetto che non infilano questo dischetto nel lettore da anni.
…E mi scatta il momento cleptomane. Sporadico, ma già vissuto talvolta in passato. Invece di riporre l’album lo infilo in un tascone del giaccone. Mentre lo faccio mi spingo ad inquadrare l’atto come una specie di esproprio proletario: questi dischi “difficili” meritano di stare nelle case di chi ogni tanto se li ascolta davvero, conosce diverse cose della loro genesi, li sa mettere in un contesto… Che paraculo, eh?! Lascio perdere, è un furtarello ad un amico e punto, innocuo quanto scorretto. Più di una bugia, meno di una carognata.
Le donne intanto hanno finito la lezione, la biondina si congeda e sparisce. Dico alla mia amica “Ti abbraccio…” mantenendo una distanza, ma lei viene ad abbracciarmi davvero, pur senza baci e con le nostre facce voltate lateralmente. “No, a te voglio abbracciarti, eh cacchio!”, sottolinea. Mentre la stringo e la palpo appena un attimo, verifico il notevole aumento suo di circonferenza e massa corporea. Proprio ingrassata! Invece lei mi trova in forma, e dimagrito. Non mi pare… tengo più o meno lo stesso peso da una vita, mentre capelli e pelle galoppano verso il loro crepuscolo… Decido di non replicare.
Poi ci sediamo a corretta distanza intorno al tavolo di soggiorno e lei prende a parlarmi di quella sua allieva: ha diciassette anni, abita nel suo stesso palazzo, è una bravissima ragazza, ha un moroso ma è ancora vergine, però lui le ha whatsappato una foto del suo cazzo eretto! E lei di rimando quella della sua giovane figa. E’ in uso così… meraviglie dello smartphone, che dà una mano anche alle timidezze e ai primi approcci sessuali. Mi viene da commentarle “Noi alla loro età ci facevamo aiutare dal buio di un portone o di un cinema, dalla ressa in una sala da ballo durante i “lenti”, da un letto a una piazza condiviso al termine di una serata fra studenti in un appartamento...”
Lei replica: “Tu sei più vecchio di me, ai tuoi tempi scopavate come ricci… c’erano gli strascichi della cultura hippy e niente AIDS e la coppia aperta e tutte quelle cazzate che io, più giovane, vi ho sempre invidiato. Siete nati negli anni giusti!”. Ribatto che gli anni più giusti in assoluto sono stati quelli di mezza generazione prima della mia, quella dove si era ragazzotti negli anni sessanta, e poi giovanotti nei settanta.
Intanto lei scivola in cucina e la guardo che, con la bottiglia di Martini in mano e il ghiaccio e tutto l’ambaradan, prepara due sprizzi per noi. La bionda sbevazzona amica mia! Mi viene in mente una nostra sbornia comune a Merano, dove s’era trasferita avendo ottenuto la sua prima cattedra d’insegnamento al locale liceo ed io, capitato lì per lavoro, l’avevo invitata a cena e poi mi aveva fatto fare il giro delle osterie. Deduco che il suo definitivo sovrappeso ha origini più alcoliche che alimentari.
L’avvenenza sarà scemata (pure la mia, dai), ma il mio affetto è immutato. Pare una tedesca, e lo è, di aspetto mentalità efficienza e vizietto di bere, appunto. Mi fa ridere, mi fa riflettere, mi fa divertire, mi fa incuriosire. L’aperitivo ci va giù in poche gollate e lei si alza subito a prepararne un altro. A quel punto la conversazione fra di noi è ulteriormente, stupendamente, consolatoriamente fluida, rapida, accomunante. Ci andiamo a genio e ci vogliamo bene, siamo amici, ci facciamo compagnia, un evento impagabile in questi tempi di covid e di ulteriori sfiche familiari nel mio caso, saltati ristoranti e spettacoli e weekend e viaggi e viaggetti... E’ un miracolo, un bene prezioso ritrovare qualche ora di sana e solida chiacchierata con un’anima simpatica, brillante, attenta, ben disposta, con una persona che stimi, che ti diverte e ti ispira, alla quale piaci allo stesso modo. E senza bisogno di alcuna tensione sessuale.
E ne parliamo pure, di questo! “Certo due colpi potevamo darceli, vent’anni fa…!” le dico. Lei annuisce, ma non mi convince. E’ una di quelle che sembra provarci con tutti ma poi nella pratica non va oltre quella fase. Ho dovuto spiegarlo a diverse persone, donne di miei amici infuriate perché secondo loro lei ci aveva provato di brutto coi loro uomini. “Tutta scena, è fatta così, in realtà è una monogama naturale!”, mi sforzavo di convincerle. L’ho sperimentato su me stesso d’altronde… di occasioni logistiche ne abbiamo avute, ma né io ero particolarmente convinto ed esplicito né lei mi ha dato il minimo, vero appiglio. Bene così.
Dopo un’ora che parliamo fitto, torna a casa il marito dal lavoro, logicamente mio amico anche lui, ma in maniera meno… spontanea. Una buona occasione per preparare il quarto sprizzo e tracannarcelo in tre continuando a chiacchierare, ovviamente non più di noi due e con quella bella tensioncina di coppia, bensì di altro, di amici comuni lavoro politica salute casa.
Si son fatte le nove e un quarto di sera, ora di sgommare perché c’è il coprifuoco. Ci salutiamo rapidamente e torno a passi svelti al parcheggio. Il viaggio di ritorno è allietato dalla quasi assenza di traffico, uno dei pochi risvolti positivi di questa pandemia feroce ed ovviamente dall’ascolto, pressoché completo, di “Lizard” nel lettore della Qashqai.
Ascoltare un disco dopo tanto tempo rende un effetto speciale: riaffiorano note e strumenti e parole e suoni già latenti nei meandri del cervello, pronti a rinfrescarsi epperò filtrati dalla nuova consapevolezza di un’età diversa, di una maggiore esperienza, dell’obiettiva lontananza nel tempo che oramai ha elevato il rock degli anni sessanta e settanta a musica classica (e infatti viene chiamato da anni “Classic Rock”), dando ad esso una sempre più convincente patina storica.
E allora a questo riascolto 2021 di “Lizard” posso soffermarmi su pensieri nuovi, essendo la conoscenza basica di queste musiche già acquisita e reiterata a suo tempo. Il primo pensiero è: “Accidenti come cantava male il povero Gordon Haskell!”; l’amico di scuola del chitarrista Fripp, chiamato nell’occasione a mettere una pezza alla dipartita di Greg Lake, sfilatosi dal gruppo per seguire Keith Emerson e costituire gli ELP.
La sua voce povera e inespressiva, per fortuna missata sempre bassissima, ridimensiona il fascino di “Cirkus”, quando Lake invece era uso svettare epico sopra quelle sciabordate di mellotron; poi rende meno convincente “Indoor games” ed infastidisco su come gli viene fatta chiudere l’ironica “Happy Family”, con una tristissima risata a cappella. Mentre la ballata rarefatta “Lady of the Dancing Water” non è proprio nelle sue corde, lui amante del sanguigno Ray Charles e di tutto il soul. Fripp era proprio disperato a quel tempo, ad offrire quest’occasione al suo poco talentuoso amico.
Invece (secondo pensiero nuovo) con la sostituzione del batterista Fripp ci aveva preso! Il buon Andy McCulloch suona nello stile del predecessore Mike Giles, però meglio, con quei ritmi spezzettati e i continui paradiddle di rullante: bel contributo creativo di accompagnamento agli speciali solisti che lo attorniano.
Fra i quali (terzo pensiero) c’è pochissimo Fripp chitarrista! Incredibile… sarà perché tutto preso a impratichirsi col mellotron, rimastogli sul groppone dopo l’abbandono dello specialista Ian McDonald, ma le chitarre sono veramente centellinate su “Lizard”: “Cirkus” ad esempio contempla soltanto tessiture di acustica, non una nota di elettrica. “Indoor Games” è dominata dai fiati e la Les Paul se ne sta da un lato ad accompagnare combinando poco. Idem su “Happy Family”, idem pure sulla ballata (di nuovo l'acustica), mentre nella suite “Lizard” ecco finalmente un assolo dei suoi, col peculiare suono sostenutissimo in distorsione, nel contempo “risucchiato” col pedale del volume. Ma tutto ciò avviene al minuto venti! Neanche quattro minuti prima della fine…
Il pensiero più bello però (e intanto sono arrivato a casa) è questo: “Lizard” è più fascinoso, più emozionante di quanto mi ricordassi! Non poi così diverso dai primi due album… quei giochi di vuoti rarefatti squarciati da pieni drammatici, e gli equilibri strumentali che si giocano sempre fra mellotron (abbastanza), chitarre (poche qui, come già detto) e fiati (tanti stavolta: c’è uno spiegamento di bravissimi musicisti alle prese con sassofoni cornette corni tromboni flauti e pure oboe, quest’ultimo però un cosiddetto legno, non un fiato). Poi c’è il povero Keith Tippett al piano, stavolta alle prese con performances più melodiche, solo sporadicamente sghembe rispetto al precedente “Wake of Poseidon”.
Forse perché la presenza di Haskell lo inibisce? Siparietto in proposito, letto e memorizzato da una biografia:
_Haskell a Fripp: “Bob, quando suona Keith sembra vi sia un gatto che zompetta sulla tastiera del piano!”
_Fripp di rimando: “No Gordon, lui sa bene dove sta mettendo le mani, sul piano!”
_Haskell a chiudere: “Si, ma l’effetto finale è lo stesso medesimo!”
Sono contento di avere sgraffignato “Lizard” ai miei amici e di essermelo riascoltato ben bene in questa mia prospettiva adulta, messa a fuoco dalla maggiore esperienza. Chissà come suona la versione recentemente rimissata da Steven Wilson… ma mi sta bene questa vecchia, sicuramente imparagonabile come resa, ma fedele ai miei ricordi di gioventù. La suite è bellissima! Il suo momento magico è lo svanire improvviso del pienone di mellotron alla fine di “Prince Rupert Awakes” ed il sopravvenire della cornetta di Marc Charig, poetica ed escavante, ad approcciare il crescendo di “Bolero/The Peacock’s Tale”.
In questo momento è il mio secondo album preferito dei Crimso, dopo l’inarrivabile esordio. Questa esperienza da me narratavi gli ha fatto sopravanzare di gerarchia sia l’ottimo, ma più freddo “Red”, sia “Wake of Poseidon” che è si eccellente, ma strutturato in maniera pedissequa a “In the Court…” e quindi un tantino forzato.
Proprio lo scorso, sciagurato anno un cancro (Haskell) ed il cuore ballerino (Tippett) si sono portati via due dei protagonisti di questo disco. Bello che il caso mi abbia permesso di rivangarli in questo modo, nell’unico disco che li vede evoluire insieme. Quattro stelle piene piene.
Carico i commenti... con calma