Una grande occasione forse non del tutto riuscita.

Dopo ben nove anni dall'ultimo lavoro in studio, il granitico e inossidabile "The Future" del 1992, ci si aspettava grandi numeri dal ritorno in campo di Leonard Cohen, il cantore dell'anima più nascosta, il poeta del pessimismo e della malinconia più nera (ma proprio per questo più "genuina"), insomma...uno su cui si poteva puntare a colpo sicuro.

Dopo aver mollato la sua esistenza metropolitana ed aver cercato (invano?) la pace spirituale in un monastero buddista lontano da ogni segno di civiltà, da ogni contatto e da ogni "malsana" abitudine occidentale, il nostro "saggio" torna a noi portando con se dieci nuove canzoni, come recita il titolo dell'album in maniera tanto disarmante da suonare anche "meravigliosamente zen".
Dieci momenti di imbarazzante ambiguità e altalenante bellezza, divisi tra note e accordi semplici come un sasso gettato in uno stagno e passaggi più intensi (anche se abbastanza rari).
Brani interessanti e come al solito profondi per quanto riguarda i testi
("I saw you this morning./ You were moving so fast. /Can't seem to loosen my grip On the past /And I miss you so much/ There's no one in sight. And we're still making love"...canta in "In my secret Life") che ovviamente non possono prescindere dall'esperienza vissuta in un contesto così "fuori dal mondo" come un monastero tibetano.
Si parla infatti di esperienze mistiche ("By the rivers dark/ Where I could not see /Who was waiting there/Who was hunting me /And he cut my lip /And he cut my heart /So I could not drink /From the river dark" canta in "By the river dark"), di illuminazione ("Don't really know who sent me/To raise my voice and say:/May the lights in The Land of Plenty /Shine on the truth some day" canta in "The Land Of Plenty") e cose che suonano "diverse" nella loro continua ricerca di quella Verità Ultima sopra ogni cosa.

La sua voce poi, si inabissa in tonalità cupe tingendosi di insana oscurità e facendoci entrare in punta di piedi attraverso le sua basse vibrazioni "nella sua vita segreta", riuscendo a trasmettere quel fascino irresistibile, da sempre vero e proprio marchio di fabbrica del nostro cantautore americano.

Il disco si muove sinuoso e flemmatico tra atmosfere tenui e soffuse, profonde nei suoni tra tensioni appena accennate e un senso di appagata rilassatezza che fa sgorgare nuovi sentimenti ritrovati dopo la perdita della percezione e della coscienza perseverata in questi anni assenti.

Come ho già detto, musicalmente il disco è abbastanza scarno, per non dire semplicemente imbarazzante, ma la chiave di questo "nuovo Cohen" è da cercare altrove, in questo senso dello scrutare con "occhi nuovi" una realtà prima soltanto sfiorata, grazie forse alla grande carica dell'esperienza buddista accumulata e vissuta ("I fought against the bottle / But I had to do it drunk /Took my diamond to the pawnshop /But that don't make it junk /I know that I'm forgiven /But I don't know how I know/ I don't trust my inner feelings - Inner feelings come and go" canta in "That Don't Make It Junk")  o il senso del "divino" in qualche modo sempre presente (sentire la cosmica "Here It Is" quasi un mantra ipnotico e circolare).

Certo manca il graffio o la forza morale di certe cose passate e qui le 10 dolci ballate latitano per quanto incisività o memorabilità, lasciandoci in certi passaggi l'amaro in bocca per il senso di sospensione che si respira qua e là.

Forse sono lontani i momenti in cui gente come Nick Cave, Jeff Buckley, Bob Dylan e lo stesso Lou Reed lo indicavano come punto di riferimento per la loro poetica comunicativa  raccontando di amori finiti, di guerre, di donne o di semplici acquarelli stinti di anime pigre in cerca di quel non so chè che da dignità all'esistenza.

Qui, neppure la splendida voce di Sharon Robinson (autrice con Cohen anche della musica e gran parte dei testi) riesce a restituirci "quel" Cohen che conoscevamo. il Cohen di oggi è irrimediabilmente stanco (come confermerà il disco successivo) e fa tenerezza sentirlo ringraziare chi gli è stato vicino; uno come lui schivo e perennemente appartato che timidamente sembra quasi voglia "scusarsi" di essere tornato a dirci qualcosa di nuovo... E' un Cohen defilato e sicuramente invecchiato (o meglio "stagionato"), che si definisce si "felice" per una quiete ritrovata ma che, alla speranza e alla voglia di mettersi in gioco, preferisce una "rassegnata disillusione", morfina paliativa di quel male di vivere che solo i più grandi sanno convogliare in opere d'arte.

Un felice ritorno ma anche una disattesa che ci fa irrimediabilmente capire che le cose cambiano e che gli antichi fasti non tornano più: in pratica "la parabola della vita".
Nel bene e nel male.

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