Mac Miller è stato un artista statunitense che ha trovato fama come rapper adolescenziale a partire più o meno dal 2010. La sua carriera è sembrata una continua scalata al successo, in cui Miller, un ragazzino, si è fatto valere come artista, produttore, e musicista. Non troppa attaccato alle etichette, il nostro non è mai stato al gioco, rifiutando la definizione del rapper e creando musica a cavallo tra hip-hop, pop, R&B e altro ancora.

Con ogni album, Miller ha continuato a crescere, fino alla pubblicazione di Swimming, nel 2018. E’ proprio a pochi giorni dalla release di quest’ultimo che il giovane artista morì a soli 26 anni a causa di un' overdose accidentale. “Swimming” è stato un disco che accostava hip-hop, funk, e soul ad atmosfere più scure e personali. Ospiti quali Thundercat, John Mayer e persino Snoop Dogg parlano chiaro sul rispetto che questo ragazzo si è guadagnato nella scena Americana, spesso soffocato dal peso di doversi liberare dall’etichetta puerile di qualche anno prima.

Quest’hanno poi è uscito fuori che “Swimming” era la prima parte di una prevista trilogia di album, di cui un secondo lavoro, “Circles” era stato quasi completato al momento della morte di Mac Miller. Se “Swimming” si dimostrava più vicino alle radici hip-hop dell’autore, “Circles” è difficile da difinire un disco rap. E’ più una sorta di cantautorato moderno, con influenze musicali cosi diverse che ci vorrebbero varie pagine a sezionare ed esplorare il tutto. Aiuta molto anche la produzione a dir poco stellare a cura di Jon Byron, che ha dato all’album un suono organico, pieno di strumenti suonati dal vivo e synth analogici d’epoca. Da notare specialmente l'uso del vibrafono, che in questo disco è una star di molti pezzi. I pezzi sono stati suonati con l’aiuto di un cast di musicisti eccellenti, tra cui alcuni che hanno inciso per artisti come il grandissimo Prince. Per aggiungere carne al fuoco, “Circles” è stato anche registrato in uno degli studi più fighi del pianeta, Conway Studios a Los Angeles. In un mondo in cui si cerca di fare uscire singoli alla velocità della luce, produzioni con cosi tanta cura, budget e passione sono estremamente rare. Solo questo dovrebbe essere un incentivo per dare una chance a questo disco, anche a chi possa storcere il naso all’artista e al suo background.

Al di là degli aspetti più tecnici della produzione, questo è un disco ha un atmosfera molto melanconica. Inizio gia a vedere le torce e i forconi all’orizzonte per quello che sto per scrivere, ma c’è un altro album che ha una carica elettrostatica molto simile a mio parere: In Utero dei Nirvana. Il charisma di Mac Miller è palpabile fin dalle prime note, e in un certo senso, mi fa pensare a un giovane Kurt Cobain, in conflitto tra i suoi istinti e in lotta con le pressioni e le aspettative su un futuro che purtroppo sarà destinato a non arrivare mai.

La traccia di apertura, quella da cui prende nome il disco, quasi mi fa pensare a “Walk On The Wild Side” di Lou Reed, e già come introduzione è una canzone che sorprenderà chi si aspetta il tipico suono del rap moderno.

“Complicated” ha dei riferimenti urban simil-anni 80 e una melodia spensierata che nasconde un testo ad alto tasso di paranoia esistenziale - cosi come “Blue World,” che forse è uno degli unici veri momenti quasi completamente hip-hop in questo disco. La quasi-ballata “Good News” è uno dei pezzi simbolo di quest’album: un mare che sembra calmo in superficie, ma che sotto è tutto un vortice tempesta. Da segnalare la bellissima “Hand Me Downs” che se fosse stata registrata da un Al Green o un Marvin Gaye negli studi della Motown sarebbe sicuramente diventata una traccia classica. Pare proprio che verso gli ultimi mesi della sua vita l’artista si fosse molto interessato alla musica dei 60 e 70, come dimostrato dalla bellissima cover di “Everybody,” gia resa famosa da Arthur Lee. Questa nuova interpretazione del brano sembra quasi una “buona la prima” data la sua incredibile spontaneità.

Mentre il sopracitato Cobain esprimeva la sua incertezza con ruggenti chitarre e feedback straziante, Miller si ritira in se stesso, cercando di dare un senso al mondo, con osservazioni spiccate e onestà totale, non solo verso il suo pubblico, ma anche verso se stesso.

Sarà il senno di poi dato il fato dell’artista, ma questo disco è come un dipinto bellissimo, ma allo stesso tempo tristissimo. Forse quello che più colpisce è che un giovane così dotato sia stato stroncato in un momento in cui stava raggiungendo un apice artistico notevole, che purtroppo non potrà mai avere l’opportunità di espandersi oltre. La vita è fatta così, e i “se” non servono a nulla. Quello che ci rimane è un disco che non mi azzarderei a definire un capolavoro, dal cuore di un ragazzo che ha iniziato la carriera con “Kool Aid & Frozen Pizza” e ha dovuto premere il tasto "pausa" per sempre.

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