Con questo "Elixir" (2008), frutto della collaborazione tra Jan Garbarek e la batterista tuttofare Marilyn Mazur, l'ascolto è tutt'altro che semplice, anzi lo definirei un tantino eccentrico e sperimentale -almeno così è stato per le mie orecchie inesperte.

Il disco in questione è frutto di un particolare accostamento tra deboli pennellate di jazz (infatti la presenza del sax di Garbarek è piuttosto limitata) e sonorità bizzarre, ai limiti del tribale, di cui Mazur è l'autrice; il risultato è un tappeto di ritmiche scoppiettanti e suoni sparpagliati in ben 21 tracce, tutte molto brevi ed estremamente essenziali, forse a tratti leggermente ostiche.

L'atmosfera è perlopiù il principale difetto di "Elixir": laddove interviene Jan Garbarek a screziare e colorare lo sfondo generalmente un po' statico ed annacquato, la musica si anima e si fa più avvolgente, ma nei brani dove tutto dipende dalla creatività della Mazur le cose cambiano, o meglio, barcollano.

Non che Marilyn non sia in grado di coinvolgere od incuriosire l'ascoltatore, per carità, ma se il considerevole numero di canzoni fosse stato ridotto e presentato in maniera meno eterogenea senza comunque intaccare lo spirito ambient, e dando un maggior senso di coerenza e di omogeneità, non avrebbe certo guastato. D'altro canto la situazione è quella che è: sfilano con una certa fretta brani sostenuti da ritmi serrati e abbastanza convincenti, brevissimi intermezzi strumentali che, detto in tutta sincerità, non vanno da nessuna parte, piccoli ed impercettibili spruzzi di new age fischiettati da leggiadri flauti e, infine, le (poche?) tracce ravvivate da Garbarek.

Queste ultime salvano il disco dalla stroncatura. Le fervide note del sax si fanno ora allegre e spensierate, tagliuzzate e decise (come in "Dunun Song", "Joy Chant" e "Orientales"), ora più spalmate ed avvolgenti (ad esempio "Winter Wish" e "Clear Recycle") ma raramente malinconiche, difatti si limitano a mantenere una certa tensione emotiva nell'aria senza tuttavia sfociare in vere e proprie confessioni sentimentali.

Insomma, questo disco pecca nella forma, giacchè troppo dispersivo, e nell'atmosfera, perchè salvato in extremis dalla buonanima del caro vecchio sax di Jan, che tanto mi ha fatto sognare in altri lavori ma che qui svolge solo un mero (ed ingrato) ruolo di filler. Per il resto: ding dong, tum tam, cric croc, parapumzazzum. Procuratevi quest'album se vi piace il minimalismo condito con le sonorità più disparate.

 

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