L'essenza avanguardistica di una performance noise dal vivo si svela in una doppia negazione. Lo sguardo del fruitore è destituito del suo ruolo consueto, al pagante non si chiede di testimoniare l'opera che dilegua e di cui, al termine della serata, non rimarrà traccia; la sua presenza -e il guardare altrove della band ne è segno inequivocabile fin dall'inizio- è, al fine dell'esecuzione, del tutto contingente.

Negando l'alterità del pubblico, la band non può però non negare, al contempo, anche se stessa: le chitarre si inoltrano nei coni d'ombra alle periferie del palco, basso e batteria sono risucchiati dai maelstrom degli effetti visivi (la gente, gridando contrariata "Voce!" rende manifesto tutto il disagio nel fronteggiare esecutori oramai deindividualizzati); paralellamente, nello spazio di tutta la performance, è operata una progressiva distruzione del Testo, per vie più sottili rispetto, ad esempio, al'improvvisazione jazzistica: è vero, si procede per una canonica scaletta, ma l'esecuzione non rimanda più al brano come esistenza separata, non si fa appello al suo carattere di "materialità ripetibile" originariamente inscritta in un CD, il tentativo è, invece, di mettere in primo piano il suono come puro evento hic et nunc: lo spettatore, entrando e uscendo continuamente da momenti, violenti, di "blow-up acustico" è costretto a perdere di volta in volta il riferimento "al titolo del pezzo", (così come, nei mantra, una parola ripetuta ossessivamente si scrolla di dosso il suo significato per farsi mero accadimento sonoro).

Nel finale l'olocausto di feedback celebra il successo di tale demolizione: un pubblico che non è più un pubblico, artisti a cui non è più neanche ascrivibile quanto accade, la partitura ridotta in brandelli, ma, nello stesso tempo, lo spazio della rappresentazione si è dilatato, dal palco, fino a inglobare l'intera sala e qualcuno si tappa le orecchie oppure, esausto, si rifugia verso gli angoli.

Inutilmente: c'è noise ovunque.

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