E' risaputo, anche per chi ha una conoscenza men che sommaria del metal moderno, che gli Opeth sono una delle formazioni più celebrate dagli addetti al settore; una reputazione ampiamente meritata, vista la costanza qualitativa e artistica che l'ensemble del leggendario michael akerfeldt ha saputo garantire nel corso degli anni. Dai brillanti esordi con Orchid e Morningrise, passando per le sperimentazioni seventies dei dischi successivi, la band ha inanellato un capolavoro dopo l'altro, ponendosi tra i vertici del death metal nonchè, azzarderei, del metal tutto, e consacrando il suo leader allo status di intoccabile guru musicale (almeno per quanto riguarda la musica "estrema" suonata con gusto e intelligenza).

Questo Ghost Reveries, ottavo album della band, era atteso con febbrile impazienza da tutti gli appassionati e, in particolare, da una consistente fetta della stampa specializzata, che dopo il mezzo passo falso di deliverance non aspetta altro che l'occasione propizia per stroncare spietatamente un nuovo flop discografico degli svedesi. Ma, spiacente di deludere questi malevoli recensori, il tonfo tanto auspicato non si è verificato. Anzi, e lo dico senza timore di smentita, fin dalla cangiante opener "ghost of perdition", la nuova emanazione degli opeth si configura come una delle loro migliori uscite in assoluto, e forse come IL disco dell'anno 2005 - annata d'oro, anzi d'acciaio, per gli amanti del metallo.
Fin dai primi 10 minuti della suddetta "ghost of perdition", subito si resta piacevolmente sorpresi da un'eterogeneità e fantasia compositiva che non ha eguali nella storia della band.

Inizio con un arpeggio algido e spettrale, subito violentato da nervose sferzate di chitarra elettrica, in puro still life style. Ma gli Opeth sono incapaci di adagiarsi per troppo tempo sulle stesse soluzioni, ed ecco dunque che a seguire soggiungono cadenze ritmiche dal sapore molto tooliano, alternate ad una travolgente cavalcata gotica. Ed è qui che fanno capolino le prime timide tastiere, ad ammantare di impalpabile decadenza il tutto. E già, perchè, novità assoluta di quest'album, gli Opeth hanno innestato stabilmente in formazione un tastierista, l'ottimo per viberg degli Spiritual Beggars, che conferisce un ulteriore gusto seventies ad ogni brano. I suoi soffusi ricami atmosferici, diafani e rarefatti, impreziosiscono i momenti salienti senza mai peccare di futile virtuosismo o stucchevole invadenza.

A questo punto, come si sarà capito, fare uno sterile track by track per un album tanto vario e multiforme sarebbe cosa oltremodo ostica; tuttavia, non posso fare a meno di accennare, tanto per stuzzicare il vostro palato timpanale, alla avvolgente percussività tribale della splendida "atonement", ballad orientaleggiante dal sapore mistico; agli inusitati e vertiginosi controtempi di "the baying of the hounds" e "beneath the mire"; alle suadenti introspezioni acustiche di "hours of wealth" e "isolation years", quest'ultima dall'incedere quasi post rock; oppure all'elettronica ombrosa e catatonica di "the grand conjuration", che a sprazzi richiama alla mente i Massive Attack del mitico Mezzanine.

Insomma, un album che magari farà storcere il naso ai puristi del metallo più ortodosso, ma che arricchirebbe anche, e sopratutto, chi di metal non ha mai apprezzato niente, ed è convinto che il genere sia solo grezzume, scorregge, alcool, rutti, urla dissenate e grugniti cinghialeschi. Fatelo vostro, qualunque sia la vostra formazione musicale. Non ve ne pentirete.

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