Nel numero di marzo del 1999, in pieno fervore da classifica di fine millennio come al tempo ne uscirono tante, la rivista Rockstar pubblicò la lista delle dieci migliori band degli anni '90: le fortunate furono (in rigoroso ordine alfabetico) Depeche Mode, Litfiba, Oasis, Pearl Jam, Radiohead, R.E.M, The Cranberries, The Prodigy, The Smashing Pumpkins e U2. Premettendo che che forse gli Oasis hanno maggiori meriti di comunicazione, ma i Blur maggiori meriti artistici, premettendo che si potrebbe obiettare sulla presenza di Depeche Mode e U2 che si erano imposte creativamente nel decennio precedente, premettendo che mi pare ingiusto lasciar fuori i Nirvana, e premettendo che qualunque classifica di questo genere ha pesanti e ovvie limitazioni… premettendo tutto ciò, probabilmente non sarebbe male in un'analoga classifica riferita agli anni 2000 inserire i Plastic Tree.

Per tutti gli anni ’90 Ryuutarou Arimura, Akira Nakayama e Tadashi Hasegawa hanno suonato quello che, se non fosse per la lingua, sarebbe stato chiamato senza dubbio alt rock. Poi, agli inizi degli anni 2000, hanno reclutato un nuovo componente, Hiroshi Sasabuchi, batterista il cui mondo creativo non combaciava affatto con quello dei tre musicisti e, proprio per questo, fu come un nuovo inizio: Hiroshi non ha mai scritto nemmeno un brano per il gruppo, ma il suo apporto come arrangiatore, la sua grande proprietà tecnica e il suo forte sound potenziarono la musica della band portandola a risultati perfettamente distinguibili rispetto alla produzione precedente, e se c'è un disco in cui è possibile apprezzare il talento di questo batterista, quello è Nega to Posi.

Il disco, uscito nel 2007, è un album di memorie. I Plastic Tree festeggiavano il decennale dal debutto discografico e con Nega to Posi ("Negativo e positivo fotografici”) hanno messo insieme istantanee del tempo perduto, come in un diario delle scuole superiori pieno di polaroid, foglie, testi di canzoni, carte di caramelle, citazioni di libri, disegni dei compagni di banco, pagine bagnate, ricordi. In questa educazione sentimentale al contrario trovano spazio foto del passato: lo splendido brano d'apertura Nemureru mori ("La foresta addormentata") usa proprio il giro di basso di A Forest dei Cure, Fujunbutsu ("Impurità") inizia proprio con gli stessi accordi di Smells Like Teen Spirit dei Nirvana, Sabbath ha proprio lo stesso sound di Zero degli Smashing Pumpkins, Makka na ito ("Il filo rosso") ha proprio l’introduzione di Wonderwall degli Oasis… e così via fino a riuscire, come in un gioco senza troppo sforzo, a identificare in ogni canzone un eco dal passato, un tema caro, un ritaglio di testo, una frase musicale. Ma sono solo frammenti, perché poi la vita prende un'altra direzione e così fanno le canzoni. La stratificazione della memoria si fa ancora più palese nell'artwork dell'album, curato dalla fotografa Emi Anrakuji, le cui foto sovraesposte, sgranate, sfocate affiorano dal nero delle pagine del booklet come ricordi accavallati di scene lontane.

Le canzoni di Nega to Posi sembrano nate nel dormiveglia della notte, come illusioni ipnagogiche, accarezzando alla chitarra brani celebri e, sbagliando qualche nota qua e là, creandone di nuovi. Eppure, pur nella loro apparente semplicità, segnano la grande differenza fra ”plagio" e "recupero": la capacità di sapere innovare partendo da basi già consolidate aggiungendo la propria poetica originale. Il disco è guidato dalla magnitudine 1,04 di una delle canzoni più dolci mai realizzate, Spica, che con il suo parallelismo astrologico chiarisce con precisione che il sentimento è lo scopo preciso a cui puntano i Plastic Tree. Mirare al cuore dell'ascoltatore usando il rock. Non c’è rabbia, non c’è angoscia, non c’è disperazione anche nelle canzoni più pessimiste. C’è un rapporto alla pari con il proprio passato, nessun compromesso. Ecco perché non sarebbe male inserire i Plastic Tree in una ipotetica classifica sulle migliori band degli anni 2000: hanno portato avanti con rara coerenza il discorso dell'alt rock aggiungendovi una potente dose di romantica malinconia pur senza travisare il senso originale del genere, ma anzi esaltandolo. Tornare alle origini e saper rinnovare. Tornare in camera oscura e sviluppare le foto in maniera diversa. Tornare in quel negozio e comprare degli altri fiori.

Carico i commenti... con calma