PENSIERI SPORCHI 

"There's something about u, baby. It happens all the time.
Whenever I'm around u, baby. I get a dirty mind.."

 Nella notte puttana e madre che inghiotte beata il desiderio del giorno, e lo risputa in lussuria peccaminosa, una sinistra sagoma con lungo impermeabile scuro s'aggira con passi netti e nervosi, tra i fumi e il riflesso viola di luci al neon, sullo sporco vivo dei marciapiedi. Le strade tiranne di questa città multietnica, all'alba di un decennio ingordo, sono come dei piccoli ponti sospesi sul futuro, il battito circolare di madre Africa un grimaldello per schiudere ogni possibile barriera o inibizione al blues dei padri, al soul, al funk, al rock. Quella minuscola sagoma di nervi e sangue ora è ferma in un angolo, illuminata da un vecchio lampione, e aspetta su tacchi a spillo vertiginosi un taxi giallo che la porti via. Dal fetore di bettole sudicie e animaleschi istinti sessuali, da luoghi vigliacchi di malaffare e perdizione.

 E' il 1980 e dopo un paio di tentativi parzialmente riusciti, ma piuttosto acerbi sul piano stilistico, quella creatura iconoclasta, ambigua, arrogante può finalmente gettare la maschera e indossare senza freni il proprio arsenale di falsetti auto-erotici, calze a rete e mutandine di pizzo per crossoverizzare in un suono vergine (!), che si stamperà indelebile nell'orecchio dell'ascoltatore comune, tutto l'umanamente possibile dall'ancor giovane Storia del rock'n'roll e rhythm & blues. Il principe di Minneapolis, folletto del funk post-moderno, l'Artista che un giorno deciderà di non avere un nome: ladies and gentlemen, Prince. Dirty Mind è il germe che infetterà il mondo a venire, scritto, prodotto e suonato dall'anagrafico Roger Nelson; l'incipit della title-track un ipnotico e sincopato ritmo disco/funk, bagnato nelle torbide e cupe acque new-wave di liriche oltraggiose, inno al porcello quindicenne perennemente arrapato presente in ognuno di noi. O nelle strofe di When You Were Mine, che media la nostalgia anni Cinquanta dei contemporanei Cars e tentativi di pop-soul sintetico, mentre l'esplicita Head ( "..But you're such a hunk. So full of spunk. I'll give you head, til you're burning up. Head, til you get enough. Head, til you're love is red. Head, love you til you're dead.." ) è un cibernetico funk espressionista, con un basso liquido, penetrante e tastiere acuminate da chiodi psichedelici. Pura avanguardia popolare, un orso polare che balla sul dancefloor, così straordinariamente personale che oggi tizi quali i Daft Punk, pur di scriverla, sarebbero disposti a mascherarsi con le facce di Sarkozy e Carla Bruni. Il breve incesto di Sister ("..My sister never made love to anyone else but me. She's the reason for my, uh, sexuality. She showed me where it's supposed to go. A blow job doesn't mean blow. Incest is everything it's said to be. Oh, sister..Don't put me on the street again..Oh, sister..I just want to be your friend.." ) è un morboso e "innocente" interludio, una confessione-porno che s'agita sulla birichina chitarra pop'n'roll del genialoide afroamericano.

 L'estetica simil-pornografica e minacciosa della cover in bianco e nero, con il Nostro nelle succinte vesti di maniaco sessuale in slippino ( davanti la rete capovolta di un letto, presumibilmente dopo nottate di orge selvagge), si riflette nei testi che fanno di fantasie proibite e sogni hard-core il motore principale, se non unico del manifesto musicale princiano. Tanto nel caramelloso e svelto pop di Do It All Night, che nei colori pastello della soffusa ballad Gotta Broken Heart Again. Ma è nell'electro/rock mutante di Uptown che Prince dichiara la sua utopica idea di società fittizia, guscio protettivo che lo proteggerà dall'esterno nel corso degli anni, governatore incontrastato di musicisti ( uomini e soprattutto bellissime donne) fedeli a un progetto che, almeno fino Lovesexy, partorirà una lunga collana di capolavori. L'atto finale Party Up ribadisce, in un clima appunto da "festa", la rivoluzione del Principe: un beat psycho/rock dei Sessanta che copula meravigliosamente con i timbri dark e sottilmente disperati di certa wave oscura dell'epoca.

 Quella sagoma in impermeabile scuro e stivaletti altissimi, proiettata verso nuovi giorni, cela la Stratocaster in fiamme di Hendrix, la piroetta con spaccata ginnica del Godfather James Brown, l'ansimare erotico di Marvin Gaye, l'androginia del Bowie glam e l'urlo liberatorio di Sly Stone. In una parola, Prince.  

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