"Oh no, una recensione su quei commercialotti e venduti dei Queen!"
Immagino che sia stata questa la reazione di alcuni di voi nel trovare il loro nome tra la lista delle nuove recensioni.
Beh, lasciatemi dire che in tal caso sareste superficiali e poco informati. Già perché prima della morte di Mercury, non c'era questo bombardamento mediatico delle loro canzoni più famose e divenute ormai bagaglio popolare più o meno tollerato con rassegnazione. E non c'era nemmeno la comune credenza che i Queen fossero un gruppo easy-listening, perché effettivamente non lo erano, tanto che in Italia, come negli USA o in altre parti del pianeta terra, la band di Freddie Mercury era tutto meno che un gruppo mainstream da alta classifica.
I Queen non erano ben supportati dalla critica che li ha sempre denigrati senza mai capirli a fondo, nonostante alcuni lavori imprescindibili per ogni amante del rock, alternati a dischi pop-rock meno importanti, ma dei quali comunque stentiamo a trovarne altri paragonabili e di simile valore nella scena musicale degli ultimi anni.

La dovuta introduzione serviva a mettere in chiaro che non sono solo i Led Zeppelin, gli Who o i Deep Purple l'hard rock da salvare dalla fine del mondo. Anzi, rispetto a tanti altri nomi purtroppo, e solamente dalle nostre parti, misconsiderati, questi gruppi citati sono addirittura sopravvalutati dalle nuove generazioni di kids alla riscoperta dei 70's.
Queen II è appunto uno degli album da riscoprire e da considerare come un vero e legittimo masterpiece del rock dai toni dark e sepolcrali, tanto caro ad artisti della scena new wave, nonché a rockstar degli anni '90 come Billy Corgan, che ha onestamente dichiarato in tempi non sospetti che questo album è uno dei suoi favoriti in assoluto, fondamentale per la sua formazione di artista.

Ma cosa ci sarà mai di tanto valido in un album dei Queen? Beh, innanzitutto via i pregiudizi, e inserite il cd nel vostro lettore: troverete qualcosa a cui, se non avete già familiarità con la corte della Regina, non eravate preparati.
L'intro di Procession lascia già intuire che c'è qualcosa che non quadra, che il sound ripulito di ogni spigolosità delle canzoni delle Greatest Hits è ben lontano, e l'arpeggio di chitarra che introduce a Father to Son, sgombra il campo da ogni forma di dubbio: questi non sono i Queen che tutti conoscono. La canzone sopra citata è notoriamente una delle più sottovalutate dell'intero catalogo della band. Epica e melodrammatica con perfetta moderazione, mette già in tavola le carte che la band si giocherà all'interno del disco, dove, se mai ce ne fosse stato il minimo dubbio, dominano le sovraincisioni di chitarre di Bruno Maggio, e la voce sublime, irraggiungibile di Fede Mercurio.
La prima parte del disco, denominata White, è composta tutta da May, che eccelle in ogni singola intuizione, e soprattutto nella splendida White Queen (As It Began), anch'essa clamorosamente dimenticata dalla stessa band negli anni a seguire. Si prosegue con un brano acustico cantato da Brian, e dalla consuetudinaria sfuriata di punkrock primordiale di Taylor, che segna la fine del lato bianco, e ci porta dritti verso il cuore del disco, il lato nero, interamente composto da Freddie Mercury, nel quale si viaggerà tra storie ereditate dallo Hobbit di Tolkien, progressive hard rock di alta classe, pianoforte in grande spolvero, cori pseudo-operistici (che ritroveremo poi in forma più melodrammatica negli album a seguire) e tante altre intuizioni che fanno di questo disco una gemma.
Ogre Battle è hard rock per definizione, Nevermore, solo voce e piano, è quanto di meglio si possa chiedere per ascoltare la voce pulita di un giovane Mercury, da applausi per il suo talento di ermeneuta nell'immedesimarsi nei racconti delle sue stesse canzoni. The Fairy Feller Masterstroke è progressive di stampo Yes, e credo che il signor Enrico Ruggieri (ebbene sì, proprio lui!) dovrebbe aver qualcosa in più da dirci a proposito di questa canzone (vedi Peter Pan).
The March of the Black Queen poi è un vero e proprio viaggio nella storia della band: c'è tutta, dico tutta, la poetica del gruppo, in una sola canzone, inafferrabile e infinita.
Chiudono il cerchio Funny how Love Is (altro colpo a sorpresa, una canzone solare ed easy che stona con le atmosfere buie del disco) e lo scioglilingua e dita (al pianoforte non dev'essere una sciocchezza suonarla) di Seven Seas of Rhye, l'unica canzone giunta ai posteri dell'intero lotto.

In conclusione, per chi conosce già il disco in questione, mi permetto di consigliare un nuovo interessato ascolto, specie se da tempo la cassetta o il cd stanno prendendo la polvere. Per chi ancora non li sopporta, e odia l'immagine (sfruttata e stuprata - solo - qui da noi) che si è fatta della band, è giunta l'ora di sorprendersi. Sempre che si sia sufficientemente openminded e pazienti da vedere, capire, e inchinarsi al passaggio della Regina Nera.

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