… l’ascoltatore di Kid A ha dovuto attendere 8 mesi davanti al suo lettore, affinché quei suoni provenienti da chissàdove tornassero a riversarsi nelle proprie orecchie e continuassero ad ipnotizzare i sensori biologici addetti all’elaborazione delle percezioni sonore.

I tamburi indiani ci inducono per qualche istante a pensare che forse il bambino A è cresciuto ed è cambiato. Ma stiamo sbagliando. L’algida elettronica non tarda ad arrivare. Gli archi e le chitarre di Johnny, e la voce elaborata di Thom tornano subito a ricreare quel pathos sonoro che tanto ci mancava, e che ricercavamo all’infinito in un 'Kid A' ormai usurato. Siamo presto “schiacciati come sardine in una scatola di suoni”.
Questo 'Amnesiac', che come dice Yorke prende il nome “da quelle cose che dimentichi… e che poi ricordi di nuovo”, risulta più ruvido, più immediato e soprattutto più eterogeneo nelle sue composizioni. Basta attendere “Pyramid Song”, seconda traccia, per ascoltare la voce limpida di Thom in una delle sue migliori performance vocali. Il piano sognante ricorda una “Everything In It’s Right Place” spogliata dell’elettronica. La seconda parte del brano è commovente, ed il suono dei fiati ci accompagna in Paradiso su di una piccola barca a remi, e non c’è niente da temere e nulla di cui dubitare.

Pulk/Pull Revolving Doors” è una claustrofobica sequenza di rumori. La performance di Thom è una sorta di antirap con autotuner. I rumori sono quelli delle porte in grado di cambiarci la vita: ci sono quelle girevoli, quelle scorrevoli, porte che si aprono da sole e porte che non si chiudono e ci sono le botole dalle quali non puoi più tornare indietro. Il suono di una voce degli anni quaranta spezza il ritmo ossessivo. E’ così che esordisce “You and whose army”; Yorke è andato persino alla ricerca di vecchi microfoni per ottenere un suono retrò.
L’impressione è quella di ascoltare una radio durante la seconda guerra mondiale. I toni sono fortemente politici e l’obiettivo pare essere quel Tony Blair per il quale l’artista prova tanta ammirazione. “Avanti, tu e l’ esercito di chi?? Tu e i tuoi amiconi”. E’ evidente la mancanza di fiducia in chi lo deve rappresentare. L’apertura jazz nel finale è splendida e racchiude tutta la rabbia della rivolta.

In “I Might Be Wrong” l’elettronica è ricamata da una chitarra acustica e ci riporta nel futuro per riflettere un cantante in profonda crisi esistenziale. Il ritmo contrappone un cantato riflessivo a percussioni irrequiete, sottolineando lo stato d’animo dell’artista. Il brano si interrompe per qualche istante ma la cura arriva dalla donna della sua vita, Rachel Owen, alla quale Thom infine dice: ”andiamo giù per la cascata, divertiamoci un po’, alla fine non è niente”.
La track centrale del disco è un tuffo nei suoni del passato. Ma “Knives Out” mantiene comunque quell’incedere ipnotico che caratterizza i nuovi lavori. Disorientamento totale rispetto ad un sinuoso avvolgimento di chitarre jazzate. Il testo folle e crudo viene cantato in maniera trascinante con la solita maestria. La gestazione del pezzo, a detta della band, si è protratta per circa un anno. La sorpresa ci coglie quando sul lettore compare il numero 7. La campana del mattino, la stessa di 'KidA', torna a rintoccare, e si fa tanto più tetra da sembrare un tocco di mezzanotte di una qualunque favola horror.

Le nuove tecnologie di registrazione facilitano infinite riletture dello stesso brano. L’arte sembra non avere confini. Non poteva mancare l’invettiva di “Dollar and Cents” contro i padroni del mondo. Thom canta “noi siamo i dollari e i centesimi, le sterline e i penny, e distruggeremo le vostre piccole anime”. E’ così che veniamo chiamati noi: i consumatori incalliti in rivolta contro i mostri della globalizzazione. Il tutto confezionato in una splendida ed insolita ritmica jazz-orchestrale con un interpretazione vocale come sempre sopra le righe. Gli orsetti esultanti presenti sulle copertine di 'KidA' e di 'Amnesiac' sono i protagonisti di “Hunting Bears”, intermezzo fatto di chitarra e tastiera che ci prepara ad un finale come al solito inatteso.
Che la band fosse alla continua ricerca del nuovo non è appunto una novità. Ma pensare di incidere una brano che rappresenta la riproduzione al contrario di un altro pezzo (I Will) rasenta quasi la follia. Succede però che durante il banale riavvolgimento di un nastro Yorke avverte una melodia nascosta e non si può far finta di nulla. Lui non può far finta di nulla. Questa è “Like Spinning Plates” . Bisogna essere disposti ad adottarla. Le lamine rotanti sono quelle dello show business. La paura è quella di tornare in mezzo ai leoni del mercato. E’ il brano preferito da Yorke, probabilmente per la sua genesi. A mio avviso sono anche i contenuti a stargli tanto a cuore.

La conclusione si chiama “Life In A Glasshouse”. Il titolo suggestivo fa riferimento ancora una volta alla vita vulnerabile delle star. La band viene additata per scagliarsi contro quelle stesse multinazionali con cui hanno collaborato a creare milioni di dollari. Il tono triste della faccenda è sapientemente reso dal suono intonato da una banda americana chiamata ad accompagnare un evento tragicomico. Si sente oltremodo il sapore di quei film ambientati in un’ America degli anni ’20 schiacciata dal proibizionismo e dalla mala.

Che dire di un disco che ancora una volta disorienta e meraviglia tutto e tutti. La promessa post-KidA di un ritorno alle vecchie melodie non è stata mantenuta. Sara stata forse un’ ”amnesia” ?? Bé io, e non so quanti di voi, spero che se sono queste le cose che come dice Thom “dimentichi e poi ricordi di nuovo”, allora che restino per sempre offuscate nella mente dei nostri amati Radiohead.

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