Possibile che a quasi un anno dall'uscita di questo disco nessuno abbia ancora scritto una recensione decente? I Radiohead hanno lavorato bene, allora.

Dopo il successo del precedente "In Rainbows" (dovuto forse alla minore sperimentazione, o alle smorfie di dolore del bassista Colin Greenwood), tutti si aspettavano qualcosa sulla stessa scia. Aspetta. Dejavù. Il volgo ci cade di nuovo. Eppure sono passati più di dieci anni da quell'Ok Computer che cambiò il gruppo di Oxford. Eppure ci avevano avvisato. Musica rapida, veloce e incisiva, usa e getta, nel panorama musicale odierno. Impossibile ascoltare le otto tracce singolarmente. Un disco da sentire in una botta sola. Però questo non è un disco. E' un viaggio. Giusto qualcosa per farci estraniare un attimo dal mondo, andando controcorrente alla ricerca del nostro vero io, cercando di fiorire (Bloom), giusto per accorgerci delle meduse che ci fluttuano sopra la testa. Eppure non ce ne siamo mai accorti. Ma adesso non siamo più noi. Il viaggio è partito. Se all'inizio siamo leggermente estraniati, alla ricerca di una spiegazione, tutto ciò viene freddato con la schizofrenica Morning Mr. Magpie. Colpi secchi ed incisivi, per abbattere le ultime barriere che ci legano a questo mondo, e sviscerare i nostri pensieri più reconditi, abbandonandosi al movimento delle onde, come in Little By Little, traccia tutto sommato lineare e che piacerà ai più al primo ascolto. Ma se state pensando a qualcosa mentre ascoltate, state sbagliando. E i Radiohead ve lo fanno capire, fanno capire che questo album non è destinato a tutti, ma solo a chi è coraggioso abbastanza per scoprire la propria essenza, finendo la prima parte del disco con Feral (qualcuno ha detto dubstep?), giusto per controllare chi effettivamente si è smarrito, qualità necessaria per procedere nella seconda parte del disco. 

A questo punto, l'album sarà casualmente volato a velocità elevata dalla finestra dei più. Approfittatene per recuperarne quanti più possibili, perchè adesso inizia il bello. La seconda parte si apre con Lotus Flower, piccolo capolavoro testuale, nel cui video è presente Thom Yorke che, con dei passi degni della migliore sbronza, si lascia andare ai propri istinti. E' forse un suggerimento? Fatto stà che la canzone non ti lascia il tempo di reagire, forse sei tu a non voler reagire. Do what you want. Do what you want. La canzone vola e si passa al capolavoro del disco, Codex, che mi ricorda in parte Pyramid Song. Entrambe sono accomunate dal messaggio: non aver paura. Non aver paura di perderti, di liberare ciò che nascondesti tempo fa. This isn't what you are. Comunque, il tempo è finito, il viaggio ancestrale sta per giungere al termine. Se non dobbiamo aver paura di scomparire al nostro "ritorno" ce lo ricorda Give Up The Ghost. Lascia andare tutti i fantasmi del tuo passato. Hai ritrovato il tuo vero io. Ciò che veramente vuoi essere. Qualcuno te l'aveva impedito, ma adesso hai trovato il coraggio di guardarti alle spalle, recuperare la tua pelle e proseguire il tuo cammino. La missione del disco è compiuta, non servono ulteriori canzoni. Per questo ci svegliamo di getto con Separator (wake me up, wake me up), forse per la batteria incisiva, forse perchè ci siamo finalmente resi conto che dobbiamo mettere dei divisori fra i vari periodi della nostra vita. Per questo quando il disco finisce, ci sentiamo comunque estraneati. Ci vorrà un po' per renderci conto in che modo abbiamo deciso di andare avanti da adesso.

Questo è un disco ermetico, criptico, che assumerà varie caratterizzazioni a seconda dell'ascoltatore. A me ha suscitato nostalgia. Non dei Radiohead. Ma di quando ho deciso di celare il vero me stesso. Il viaggio purtroppo (o fortunatamente?) funziona solo al primo ascolto, al primo impatto, solo un colpo, usatelo bene. Appunto, musica rapida veloce e monouso, un bellissimo ritaglio nel panorama musicale odierno, fatto solo di momenti. 

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