Da una costa all'altra di un'immaginario continente stilistico musicale ogni nota, dalla prima all'ultima, sembra essere stata raccolta come sabbia, polline, neve, volute di fumo appese al vento e trasportate verso un altrove, in questo viaggio investendo con dolcezza l'ascoltatore... altrove: questo luogo corrisponde alla definizione di ciò che viene dopo, in senso temporale, che va oltre, in senso creativo, che rappresenta un inevitabile punto di non ritorno: post-rock.

Cioè a dire il risultato di un lavoro di scavo nella ultra-decennale storia del rock e del pop, e della messa in luce dei suoi reperti in un museo virtuale in cui le strutture formali stesse appaiano difficilmente riconoscibili perché avvolte da una soffusa luce, azzurro-verde, che fa apparire ciò che è stato come ciò che potrebbe essere stato, e come ciò che potrebbe divenire. Quest'opera, che di fatto costituisce il caposaldo del genere post-rock attraverso l'ottica dell'elettronica intarsia una sequenza di ambienti dissolti uno nell'altro, in cui ora con un'impronta più ambient (con un senso di liquidità oceanica), ora con effetti più difficili da racchiudere in una definizione "a fuoco", vengono messe in scena le destrutturate e poi ri-costruite secondo criteri inusitati, partiture-base di una rock-song tradizionale, ma appunto, attraverso infinite trasfigurazioni ambientali, volutamente dilatata e confusa nei contorni.

Inutile incentrare il discorso sulla definizione di un genere che per sua natura rappresenta un canone talmente astratto ed evanescente da rischiare di dissolversi nel momento in cui si tenta di delinearlo, anche perché (così sembra) l'intento di John Herndon, John McEntire (Gastr Del sol, ex Bastro), Douglas McCombs, Dan Britney (Tar Babies), Bundy K. Brown (ex Bastro) e da quest'album (il secondo, dopo l'omonimo esordio del 1994) David Pajo (co-fondatore degli Slint, ora al posto di Brown) è un altro: stupire l'ascoltatore con sonorità realmente nuove, con la freschezza di idee totalmente spiazzanti, con il talento e il genio creativo che può rintracciare precursori nel "Kraut Rock" dei Can e nel Rock "cosmico" di Tangerine Dream e Steve Reich, i quali risultano però complementari, e creativamente superati nel lavoro di sintesi.

I Tortoise non suonano canzoni, dipingono quadri, ora tenui e pacati (la splendida e atmosferica "Along The Banks Of The River") ora più movimentati e ritmati (l'epica cavalcata iniziale, nonché monumentale traccia "Djed"), tra breakbeats che affiorano a tratti dalla liquida superficie sonora, per poi scomparire di nuovo (come delfini dalla superfice del mare), fino all'intreccio polistrumentale di "Glass Museum" (electro-glitch, xilofoni, tastiere analogiche, basso, batteria...) assemblando pulsazioni electro retrò alla Neu! e Faust, le più recenti e geniali intuizioni degli "Ambient Works" di Aphex Twin, (il quale a sua volta traccia una traiettoria arditissima da Erik Satìe a Brian Eno), le impronte wave, certo jazz, loops reiterati e rumori d'ambiente alla maniera della "Music Concréete", e tutto il resto racchiuso in tale perimetro, che è il Rock, in forme scelte di volta in volta, superando la pseudo-dicotomia con l'elettronica come se non fosse mai esistita (e forse è proprio così).

Un sound cangiante, avvolgente, infinito, immerso nel futuro, con l'irrinunciabile profumo del passato. Un sound vivente, proliferante nelle intuizioni geniali, che proprio grazie alla grandiosa creatività dei suoi autori non morirà mai.     

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