"Words Become Fake Veichles" (Le parole diventano falsi veicoli)

I Rodan sono un gruppo di Louisville, Kentucky, città dalla quale sono nati alcuni dei gruppi più interessanti degli anni '90. Registrarono un unico disco in studio prima di sciogliersi: Rusty, del 1994, prodotto da Bob Weston, ex bassista negli Shellac di Steve Albini; suo è gran parte del merito per il sound monolitico caratteristico del disco. C'è da dire che le loro intuizioni erano precedentemente uscite in un demo su cassetta, Aviary (1993), che già conteneva versioni molto rozze dei brani qui presenti.

Cioè che stupisce di questo disco è la sua poliedricità. Non è possibile catalogare lo stile musicale dei Rodan. Punk, Post-Punk, Metal, Post-Rock: nessuno di questi nomi può essere accostato con certezza a ciò che viene proposto. Volendo semplificare si potrebbe pensare ad un bersaglio composto da tanti cerchi, in cui ogni cerchio stia a rappresentare uno stile musicale, dalla classica al metal, dal jazz al punk. Molti dischi possono essere considerati come la freccia che impatta sul bersaglio e si colloca su di un genere musicale, al limite tra più di essi. Rusty è tutto il bersaglio.

Se, come ho detto, è impossibile definire l'estetica dei Rodan cercando di catalogare i loro brani nei vari stili musicali, si può però cercare un filo conduttore ideologico. L'opera rock che si potrebbe avvicinare più verosimilmente a Rusty è Spiderland (1990) degli Slint, del quale talvolta si avverte la presenza. Di fatto l'insegnamento degli Slint è stato assimilato dai Rodan, i quali non consentono ad alcuna barriera di contenere i dolci arpeggi e le valanghe di note distorte che assieme formano le due facce di questo disco. Ciò che maggiormente differenzia questi due lavori non è tanto la preponderante presenza di suoni monolitici su Rusty, quanto la sua imprevedibiltà. Se Spiderland è un'analisi chirurgica degli aspetti più inquietanti e morbidi dell'animo umano, Rusty è la descrizione che potrebbe fare un pazzo del suo stato mentale un attimo prima di cadere nel baratro della follia. Indico tale istante perchè, ascoltando il disco varie volte, ci si accorge di quanto in realtà l'evoluzione apparentemente incontrollata di ogni brano sia ben definita: dunque non si tratta di pura improvvisazione basata sulle emozioni, come potrebbe apparire ad un primo ascolto, bensì di un tragico studio della mente dell'uomo. Ciò che non mi permette di considerare Rusty come un vero e proprio capolavoro non è qualche sua pecca, ma il fatto che esiste un disco come Spiderland, la cui fredda perfezione cerca di bloccare l'ira delle canzoni. Su Rusty nulla ferma tale sentimento.

Il disco tratta di argomenti attinenti appunto al conflitto tra istintività e raziocinio. I testi raccontano il mondo interno di persone costrette a nascondere il proprio essere a causa del mondo esterno che non consente loro di essere se stessi. Tutti i personaggi di questa città/manicomio, troppo repressi per poter cambiare la propria situazione, esplodono all'interno di se stessi e sfociano nella schizofrenia. Le urla che accompagnano lo svolgersi dei brani non sono di liberazione, bensì di frustrazione. Nulla cambia all'esterno, tutto ciò che sta avvenendo è all'interno della mente di questi folli.

Il disco si apre con Bible Silver Corner, che preso singolarmente potrebbe sembrare un dolce e innocuo brano rilassante, tanto che chiudendo gli occhi quasi ci si potrebbe sentire cullati dalle note delle chitarre, del basso, del pianoforte e degli archi leggeri che in sottofondo fanno da contrappunto e disegnano un soffice manto su cui le note possono disporsi liberamente (gli archi sono suonati da alcuni membri dei Rachel's, gruppo di cui faceva parte Jason B. Noble). L'analisi da fare secondo me è molto più complicata. Come in Ananas Symphonie del 1973, in cui i Kraftwerk attraverso note celestiali e ritmi leggeri disegnavano il ritratto di un mondo prossimo alla completa distruzione, i Rodan fotografano da vari punti di vista una città deserta in cui è presente una bomba pronta a scoppiare da un momento all'altro. Il brano termina improvvisamente lasciandoci soli con le nostre elucubrazioni sul suo significato, di cui parlerò in seguito.

Shiner scatta quasi come una bastonata in testa. Riff monolitici post-hardcore e voci disperate colpiscono senza alcun indugio e picchiano l'ascoltatore fino a sfinirlo. I cantanti alternano momenti in cui le parole riescono quasi a comporre un discorso di senso compiuto a urla rabbiose, accompagnate dalla band che riesce come pochi a dare l'idea della violenza e del caos attraverso poche note. Nelle liriche è riportata una frase introduttiva al brano: "A short song concerns itself with wanting to destroy the sun (the proverbial enemy)". Per quanto viene detto in seguito, Shiner (letteralmente "colui che fa brillare") sta a significare la ribellione al mondo esterno, in cui brilla un sole che consente a "corpi vuoti" di possedere un'identità grazie al loro aspetto esteriore; ciò rende evidentemente inutile la necessità che avrebbero questi corpi di brillare di luce propria. Ognuno dovrebbe trovare dentro se stesso la forza di brillare di suo, non grazie ad altri.

The Everyday World of Bodies è il brano più lungo del disco, quasi dodici minuti. La cosa più difficile nel parlare di questo brano è cercare di catalogarlo in uno o più stili musicali conosciuti: nonostante l'evidente presenza di suoni cupi, non può essere catalogato come Dark; nonostante la presenza di chitarre distorte non è possibile considerarlo un brano Punk o Metal. Non è offerta alcuna soluzione di continuità, tutto aleggia tra terribili urla di dolore e disperazione, spezzate da riflessioni sussurrate ma spesso indecifrabili perché sommerse da suoni distorti. Da notare come su scala microscopica il brano appaia come un essere informe in continua evoluzione, mentre su scala macroscopica appaia piatto, come se non accadesse assolutamente nulla in tutti i 12 minuti. Non ci si accorge di come cambi lentamente il pattern di batteria, non ci si ricorda mai dei vari interventi vocali. In realtà è rappresentato il flusso di coscienza di un pazzo che urla frasi al "mondo quotidiano dei corpi", corpi vuoti tra i quali non ci si riesce a distinguere semplicemente perché non c'è modo di emergere nell'indifferenza totale. Ogni intervento gridato del cantante è preceduto da attente analisi personali: tra le frasi più interessanti ricordo "waitin' for something better: everything changes", ripetuta sottovoce in più occasioni. Questo brano è un opera rock a se stante, un capolavoro psicologico di dissonanze e disperazione. Una curiosità: il soprannome del produttore del disco è appunto "Rusty", arrugginito. In realtà il nome del disco dei Rodan non c'entra niente con il produttore, dato che su questa traccia viene urlato "It's rusted" in relazione ad un treno arrugginito che passa all'interno di una città, metafora per dare l'idea di come tutto cambi, sia quello che viene dall'esterno (il treno) che la nostra quotidianità (la città). Piuttosto è stato questo disco a dare questo soprannome a Bob Weston.

Jungle Jim si apre con la voce soffice e disperata di Tara Jane O'Neil, ma subito sfocia in parole sconnesse e rabbiose, urlate a qualcuno che sembra non poterle ascoltare. Notiamo come si riproponga sempre questa soluzione compositiva di valanghe di rumore inframezzate da pensieri espressi con voce melodica, quasi dolce in certi frangenti. La cosa che più mi stupisce è notare come, a dispetto della costanza degli intermezzi rabbiosi, le fasi in cui la cantante solfeggia presentino un crescendo di contrappunti dei membri del gruppo, i quali intervengono sempre più pesantemente nelle fasi di accompagnamento. Nulla può porre rimedio alla rabbia della cantante e qualsiasi riflessione disperata la porta sempre alla più nera disperazione, finchè alla fine del brano non ci si rende più conto se ci sia ancora una differenza tra riflessione e rabbia.

Gauge ci accoglie con il classico inizio di una canzone Post-Rock. Le voci si mescolano accompagnate da una triste nenia. Come se il tunnel in cui si è caduti finora non bastasse, ora i Rodan cominciano a scavare: la tragicità delle note è vibrante. Da notare come il registro del brano non sia assolutamente basato sull'accompagnamento dei cantanti: sembra piuttosto che la base strumentale viva di vita propria. La cosa che più fa spavento è la complessità compositiva di un brano simile: nulla è lasciato al caso, ogni strumento agisce chirurgicamente e impercettibilmente variando in continuazione la forma del brano. Inquietante l'urlo verso la fine del brano "nothing was worng, gauge! (niente era sbagliato, misuralo!).

Il disco si conclude con Tooth Fairy Retribution Manifesto. Il titolo del brano vuol dire "il proclama di retribuzione (inteso come ribellione e vendetta) della fatina dei dentini". Tara Jane O'Neil interpreta la fatina dei denti che, accompagnata da un pesantissimo Slow-Core, intona una nenia dolce e cadenzata. L'impercettibile crescendo del brano porta la rabbia dentro chi ha sempre donato (la fatina) senza mai ricevere nulla in cambio. Fa quasi paura a metà brano il cambio di registro che avviene nel pezzo: il dolcissimo arpeggio si sgretola al cospetto di un riff Metal, la voce dolce e cadenzata si trasforma e diventa sprezzante e accusatrice: la fatina si è ribellata. La storia che viene rappresentata è metafora dell'inutilità del fare del bene, dato che mai nessuno ci ripagherà di ciò che noi doniamo spontaneamente. Lo svolgimento del brano potrebbe descrivere perfettamente il concetto di "goccia che fa traboccare il vaso". E tutto finisce con una frase terribile: "...then at dawn I'd be rich with pennies and the blood left behind!".

Adesso che il disco è finito si può parlare della copertina. Può sembrare strano analizzare solo ora la prima cosa che si sarebbe dovuta vedere, ma a mio avviso per capire questa immagine è necessario aver ascoltato il disco. Tutti i brani sono caratterizzati da momenti di titubanza e riflessione accompagnati da terribili sfuriate vocali e sonore; le storie raccontavano quasi teatralmente stati d'animo di persone represse sull'orlo di una crisi nervosa. Sulla copertina si vede una farfalla poggiata su dei fili all'interno di un barattolo di vetro. Pensando bene alla dualità proposta tra calma e tempesta, dovuta all'alienazione che ci è imposta dal vivere in questa società, si può intendere ciò che tale copertina sta a significare: la farfalla simboleggia la nostra fantasia, il contenitore il nostro aspetto esteriore. La nostra fantasia è bloccata all'interno della realtà, non ha modo di uscire. Non ci si può distinguere dal "quotidiano mondo dei corpi". I nostri corpi sono come vuoti poiché ciò che resta al loro interno è una farfalla che non può volare.

Forse solo ora è giusto cercare di dare un significato a Bible Silver Corner, l'unico pezzo strumentale, prendendo spunto dalla frase riportata tra i testi usata per introdurre il brano: "Maybe if there were words, they'd be: ...(parole cancellate)? I dont know"
Se mai ci fossero state parole, sarebbero state: ...(parole cancellate)?io non lo so.
Il primo brano sembra la presentazione della copertina del disco; a posteriori, non ci sono parole per descrivere la farfalla costretta all'interno del barattolo di vetro, la farfalla che non può spiccare il volo e manifestarsi agli occhi degli altri. Questo brano è come la pagina bianca con la quale soltanto Mallarmè pensa di poter esprimere la realtà.

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