In quel tempo l'uomo del sottosuolo confinato nello scantinato di "Spiderland" aprì la porta. Aprì la porta, risalì le scale, uscì di casa e rivide la luce. Rivide la luce, riebbe a che fare con le cose del mondo e si fermò d'un tratto. Si fermò d'un tratto, si guardò dentro e si scoprì "Rusty".

In verità vi dico: il momento e il luogo dove esprimiamo un determinato sentire cambiano radicalmente i connotati dello stesso. Vale per tutti, anche per i borderline.

Qual'era l'origine del soliloquio alienato di "Spiderland"? Perché quel rarefatto intimismo appeso ai fili di arpeggi disfatti? E quegli improvvisi risvegli elettrici troncati all'altezza del soffitto e compressi in quattro mura? Un border post-adolescente che si esilia in una stanza.

Il quadro perfetto lo dà Dostoevskij nel suo "Memorie dal Sottosuolo": un essere umano che si autoelegge un destino ai confini della società, solo, compulsivamente avvelenato e ossessivamente dedito al ruminare la sua stessa bile.

Dopo anni però si impone una scossa, esce dal suo buco, incontra persone e si riconosce arrugginito nel mestiere di vivere.

Avete udito che "Rusty" è una specie di doppio all'anfetamina di "Spiderland", ma io vi dico che è sempre lo stesso uomo e che le droghe non c'entrano nulla. È sempre lui, lo stesso border, solo con più anni sulle spalle e inserito in un contesto pubblico.

E cosa fà un personaggio di cotal fatta? Esattamente quello che raccontava Dostoevskij: non solo alterna momenti catatonici a sfuriate nichiliste, ma lo fa senza transizioni, senza preamboli, senza motivi che non siano quelli delle torsioni incessanti della sua mente.

"Rusty" segue un percorso ed è quello di quest'uomo nel dedalo dei rapporti con il mondo esterno.

Pezzi come segmenti vita pubblica, ma una vita pubblica vissuta da un border.

Una quotidianità dove ogni sentimento tracima nell'altro per poi tornare al punto di partenza leggermente variato.

Dove la gola in fiamme dell'hardcore si scioglie nelle soluzioni emolienti dello spoken word.

Dove austere stasi strumentali spengono tirate simil-punk.

Dove ritmiche al limite del progressive si perdono in arpeggi morbidi e dilatati.

E tutte le combinazioni, tutti i cambi di direzione, tutti gli stop and go vengono lubrificati in una jam di sinapsi scompensate che senza soluzione di continuità creano e distruggono, arricchiscono e prosciugano, scavano ed esondano.

In questo senso non è un caso che i due pezzi iniziali siano i più lineari e traccino i confini, diano le coordinate entro cui rimbalza continuamente la realtà di un border: soffici intrecci chitarristici che sembrano alludere ad una ritrovata stabilità nascondono nel divenire un retrogusto d'inquietudine che monta costantemente fino a sfociare nell'assalto all'arma bianca di un pieno elettrico.

E in tutto il resto del disco questi due aspetti si contaminano, si mordono, si seducono, si aspettano, si mandano a fare in culo in un contesto dove la dimensione spaziale non è mai claustrofobica ma sempre di una certa ampiezza.

Quest'uomo del sottosuolo ha finalmente abbandonato la cantina di "Spiderland", si è messo nella corrente del mondo e per di più ha acquisito un certo rigore nel suo delirio: una sorta di raffinata follia che si smarca dalle convulsioni informi della sua infanzia. Da quel "Tweez" - così bisognoso d'attenzioni - o da quell'impacciato studentello de "Le Notti Bianche" dostoevskijane.

Il nostro border crescerà ancora, ma eleverà il suo scompenso a sistema solo in età completamente adulta. Quella del calcolato nichilismo dei June of 44 o dello Stavrogin de "I Demoni".

Ma sotto sotto si crederà sempre una farfalla, quella che vedete in copertina. Una farfalla circondata dal filo spinato e intrisa della luce di un cuore arrugginito.

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