Oggi non è più come una volta. Che frase banale... Eppure come smentirla? Prendiamo in esame la musica e partiamo da ciò che tutti sappiamo: le case discografiche da un bel po' di anni non fanno altro che proporci la solita minestra, limitandosi a farla riscaldare ogni volta da una qualche nuova e inutilissima leva, come se questo potesse cambiare la sostanza dell'ormai intollerabile piatto. Sono troppo giovane per dirlo ma mi prendo una licenza poetica e lo faccio lo stesso: Ai miei tempi era diverso. I complessi sfrecciavano su strade mai percorse e ne tracciavano pazientemente le rotte fondamentali, studiando, sperimentando e incidendo le loro scoperte in vinili atti a divenire immortali diari di bordo di fantastici viaggi, improponibili in quest'epoca perlopiù vuota e superficiale.

Adesso parliamo di qualcosa di meno scontato, ovvero di come in quei tempi apparissero ogni tanto dei gruppi di giovani sconosciuti che, con un'unica pubblicazione, riuscivano a proiettarsi talmente oltre i confini fino a quel momento conosciuti, da riuscire a prendere in contropiede anche gli ascoltatori più ferrati e avanguardistici. Attenzione però: non stiamo parlando di dissonanze inascoltabili o suite talmente lunghe e psichedeliche da friggere la gran parte dei neuroni dell'essere umano medio, ma di misture estremamente complesse e anche un po' pretenziose, racchiudenti un gran numero di generi, coraggiosamente amalgamati ed eseguiti in modo da creare una bizzarra armonia e una vastità di suono a dir poco singolare.

I Room, neanche a dirlo, sono una di queste formazioni pionieristiche che, armata di muta da palombaro, si inabissò nei più profondi e sconosciuti fondali del prog, dove le correnti intrecciano il rock, il blues, lo psych, il folk e la classica, riemergendo, dopo un'accurata esplorazione, con Pre-Flight, disco datato 1970, in cui sono documentate le pazzesche ricerche musicali del quintetto di Dorset. È appunto in questa contea inglese che i nostri eroi erano soliti esibirsi, perlomeno fin quando, nel '69, un secondo posto in un concorso di Melody Maker riservato ai nuovi talenti, non garantì ai chitarristi Steve Edge e Chris Williams, alla cantante Jane Kevern, al bassista Roy Putt e al batterista Bob Jenkins un contratto per la registrazione di un LP con la Deram.

L'apertura e la chiusura dell'opera sono affidate a due suite, rispettivamente "Pre-Flight Part I & II", in cui si fà immediatamente notare la fitta schiera di guests che ceselleranno, durante il corso dell'album, il suono prodotto dal gruppo grazie a quattro violini, due viole, due violoncelli, un secondo basso, tre trombe, un corno e un trombone, e "Cemetery Junction Part I & II", dove i sopraelencati archi e fiati, in un crescendo irresistibile, si spingono a confezionare un gioiello strumentale dai toni austeri e maestosi, resi possibili anche e soprattutto grazie a Bob e al suo estro batteristico.

L'anima blues della band, oltre che con la breve e frizzante "Big John Blues", si materializza nello stile caratteristico delle chitarre e nella voce grave e lamentosa di "Where Did I Go Wrong", contrapposta alla successiva e notevolmente più incisiva "No Warmth In My Life", in cui spunti jazz prodotti dalle trombe ricamano atmosfere evocative intorno agli strumenti, questa volta decisamente imprevedibili, di Steve e Chris e alla voce sempre più espressiva di Jane. Il suono netto e profondo del basso di Roy, circondato dalle chitarre e dai violini, disegna le correnti impetuose di "Andromeda", mentre "War" si snoda attraverso fugaci scatti generali e repentini cambi di tempo, alternando arie delicate ed evanescenti, ad altre minacciose ed aggressive.

Forse non staremo parlando di una pietra miliare o di un capolavoro irraggiungibile, ma quel che è certo è che ci troviamo di fronte ad un disco dall'indubbia originalità che, come il pittoresco aeroplano raffigurato in copertina, meriterebbe di tornare a volare, solcando, se non il blu del cielo, perlomeno i timpani di qualche nuovo e motivato ascoltatore.

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