I Nani da Giardino che furono i Giganti dell'isola di ghiaccio.
È dura realtà rendersi conto che anche i puri, quelli che pensavamo incorruttibili, hanno un prezzo e che sono glissati dal colle di un vulcano per accettare un compromesso: quello di vendere l'Islanda dunque, per la pop inglese. Pubblicità, tournée, notorietà... è questo il mezzo che li ha offerti a tutti invece dell'essere Unico.
La nebbia improvvisa sta sparendo poco a poco. I folletti svaniscono nelle luci soffuse per trasformarsi in nani da giardino che bevono il tè della regina alle cinque del pomeriggio.
Si sono dileguati i suoni strani nordici, gli accostamenti sperimentali di cui non si sapeva ancora il gusto ma che si assaporavano con l'emozione della scoperta. Sorprendendoci.
Permangono i tintinnii dei campanelli, rimembranza lontana della consistenza del ghiaccio, verso la luce che sta già mutando sfumatura, attraverso l'aria in cui si propaga, sotto le percussioni certe di mani divenute esperte.
I Sigur Rós hanno studiato, migliorando la tecnica. Perdendo un po' della loro naturalezza e spontaneità. Forse i loro manager hanno imparato fin troppo bene la lezione.
Malgrado una perdita di colore, la voce superba e potente di Jónsi è la carezza di ciò che è stato. L'orchestrazione più accurata, l'arco sulla chitarra e il nuovo batterista, conservano la speranza di un affascinante ritorno alle origini.
Malgrado tutto, non nostalgia, perché dal vivo sprigionano una forza vitale di un'energia incontenibile, e uno stile, pur sempre inconfondibile.
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