La Kora è uno strumento particolare, fa parte della famiglia dei cordofoni ed è uno strumento tradizionale dei Mandinka (o Mandingo o Malinké che dir si voglia), etnia dell’Africa Occidentale e, parzialmente, Centrale.

Il maestro di kora, detto “Jali”, è un uomo, generalmente della famiglia di un “Griot”, ovvero un cantastorie, specialmente nella tradizione malese, gambiana o senegalese. Il titolo di Jali è importante, perché è colui che porta avanti la tradizione del popolo, un ruolo onorifico, fondamentale, maschile. E’ un saggio musicale.

Una donna “speciale”.

Una donna simbolo nella musica africana.

Una donna capace di imporre il suo desiderio ed il suo volere sopra le tradizioni.

Una donna che scavalca la radicata fallocrazia islamica.

Per i primi anni, dai tre agli otto anni, Sona Jobarteh suona la kora in gran segreto dopo aver assistito alle lezioni che il padre impartiva al figlio maschio (Tunde Jegede). Il fratello di undici anni più grande di lei si prende a cuore la sorella e, sempre di nascosto, le concede le prime lezioni, ma infine… il padre li scopre.

Potrebbe essere la fine, invece è il grande inizio.

Il padre, Sanjally Jobarteh, già diventato cittadino del mondo, trasferendosi a Londra prima della nascita dei figli, le concede lo studio della kora e contemporaneamente la mette nelle condizioni di frequentare al Royal College of Music le lezioni di pianoforte, violoncello e clavicembalo.

Lo studio della cultura popolare, della composizione e quello della sua voce, la rende una musicista completa che s’impone come la prima suonatrice di kora donna, per di più nata da una famiglia Griot e quindi lecitamente riconosciuta come maestra di kora.

Le doti tecniche fanno sparire ogni dubbio anche ai maestri anziani, a quelli più conservatori, ai machisti griot, che devono riconoscere l’indiscusso talento e capacità della ragazza anglo-gambiana.

Nel 2011 esce “Fasiya”, che significa “Una donna gentile”, un album cantato in mandingo per il quale non mi accingerò ad un’analisi specifica, perché è un album da ascoltare nel suo complesso, per immergersi in un’esperienza sensoriale scevra da ogni analisi tecnica (anche se di tecnica ce n’è parecchia).

Nell’album, la polistrumentista Jabarteh (voce, chitarra acustica e kora), si fa accompagnare da ben 14 musicisti (basso, batteria, chitarra elettrica, chitarra acustica, congas, balafon, calabas, flauto, violino, djembe, dunun) per un percorso che potrei definire country, ma mi contraddico immediatamente, omaggiando lunaticamente l’indecisione femminile che amo tanto, preferendo usare il termine “afropop”.

Diventa quasi inutile parlare delle coinvolgenti “Jaraby” (“Amato”) o “Bannaya” (“Potere” o ambizione), brani folk, tradizionali africani, che stringono la mano a sonorità pop coniugandole affabilmente, qualche minima tensione al mondo anglosassone esiste (“Musow”, “donna”), preziosi momenti che virano al country-blues (“Saya” e “Mali Ni Ce”), rari, ma pregevoli, virtuosismi per kora, violino e chitarra in “Gainaako” (“buona fortuna”), quindi mi limito a questo paragrafo per dare un’idea delle sonorità della pregevole opera.

E’ un album gentile, un album rivoluzionario (prima incisione di una kora al femminile), è un album che fa battere il cuore, è un album che strappa un sorriso e che val molto più di un annual giallo mimosa.

Vale la libertà dagli schemi conservatori di un popolo.

Ça va sans dire che la cosa non è ben vista nella maggior parte del mondo africano e del mondo islamico, ma é l’8 marzo e non poteva che venirmi facile parlare di una donna di questa caratura morale e spirituale. Buon ascolto.

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