Da quando fu annunciato, mesi orsono, ho vissuto una vita a metà: la prima normale, l’altra in perenne attesa, contando minuti, secondi, attimi, che mi separavano dal fatidico 23 giugno, giorno d’uscita e in cui avrei assaporato, nuovamente e finalmente, un nuovo album di una delle mie band da isola deserta.
Delusione, questo è il primo sentimento che penetrò la mia anima al primissimo ascolto: la mia paura più grande, quella dell’ammorbidimento, del totale abbandono di quel massimalismo esasperato portatore di un trittico di album da annoverare tra i capolavori rock, e non solo, del nuovo millennio, era divenuta realtà, partita in sordina dal precedente, minore, Leaving Meaning, dove si denotava un ritorno a sonorità folk, già ampiamente espresse nei dischi a nome Angels of Light.
Ma, e c’è un ma, a differenza del succitato predecessore, che mi aveva estasiato all’inizio per poi calarmi drasticamente con gli ascolti successivi, questo nuovissimo The Beggar sta facendo l’esatto opposto, sta aggrappandosi al cuore, pian piano, con spire avvelenate e appuntite che lasciano cicatrici profonde e che non vanno più via: man mano che il disco prosegue vengo risucchiato in un mare conosciuto, quello di album come Children of God, White Light…,The Great Annihilator, e cioè di quel modo obliquo di pensare il rock folk, trafitto da un senso di sconfitta imperante ed un nero strisciante che inquina tutto, ma che al tempo stesso brilla di nuova luce, di nuova linfa vitale, aggiornato, magnificamente calato ai giorni nostri e non foriero di chissà quale operazione nostalgia, grazie a brani che rasentano la perfezione, essendo perfettamente in equilibrio tra melodia e sperimentalismo, tra cantautorato notturno, folk (apocalittico?), avanguardia.
Cito solo il tour de force della semi Title Track: 44 minuti di espansione sensoriale, di collage sonici come non se ne sentivano dal loro immenso Soundtrack for the Blind, di post rock devastato, attraversato da venti dronici, voci che si innalzano al cielo, vuoti annichilenti, tamburi impazziti e mantra salmodianti che ti incollano a terra, semplicemente tutta la poetica di Michael Gira, racchiusa in questo disco nel disco (perchè non è altro che questo).
Non c’è altro da dire se non “grazie”, ancora una volta, dopo 40 anni di carriera, dopo dischi semplicemente pazzeschi, ancora lì, a non scendere a compromessi, a fare musica, una musica che è tra le più trafiggenti e penetranti che io abbia mai ascoltato.
The Beggar sa tanto, troppo, di commiato, cosa che spero rimanga solo una sensazione, perchè quando non ci saranno più loro il mondo del rock tutto sarà irrimediabilmente più vuoto e insignificante.
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