E me le ricordo ancora, come se fosse oggi, le facce sbacalite di quei giovani di allora, quelli dai lunghi capelli che coprivano fin oltre le spalle gli scacchi dei camicioni in pesante flanella, quelli dai jeans stracciati all'altezza del ginocchio, con le Doc Marten's slacciate e le cinture che simbolicamente riportavano su scritto "Menefrego!" (per fortuna in inglese, nevermind).

Non si inizia un componimento con una congiunzione, te lo insegnano già alle elementari. Perché, invece, è lecito che quattro teppisti di Cincinnati, infoiati di sesso e rock, a fine Ottanta acquartierati a Seattle - e dove, se no? - ad incidere per la Sub Pop - e per chi, se no? - pronti dunque per cavalcare l'onda multimilionaria del (basta, è venuto il momento di dire quella parola...) "grunge", se ne escano sul più bello con un piccolo dischetto di quattro brani più un remix interamente composto di cover soul? Soul? E che c'azzeccava mai, il soul? Ma non era apostasìa, questa? Ma chi si credevano di essere, soprattutto lui, quel cantante-chitarrista, arrogante bel tenebroso e col naso storto come un pugile professionista?

Del resto, che Greg Dulli - lui, il bel tenebroso d'origine greca - avesse avuto un'educazione sentimentale non proprio di quelle convenzionali avrebbe dovuto essere chiaro prima ancora dell'uscita di "Uptown avondale". A quanti suoi contemporanei sarebbe venuto in mente di prendere a prestito dal repertorio a dir poco negletto di Jesus Christ Superstar un brano come The Temple e di trasfigurarlo in una minacciosa cavalcata hard-boogie che deve ad Alice Cooper tutto quello che non deve agli Aereosmith? E allora perchè stupirsi, se poi lo stesso Dulli candidamente confessò di essere cresciuto in un quartiere "misto" ascoltando massicce dosi di black music, dichiarando pure senza mezzi termini che "il soul è una musica molto più emozionale di quanto lo sia gran parte del rock. Ed essendo divenuto un cantante emozionale, le mie influenze le ho pescate più nel soul che nel rock"?

Ecco dunque, sul finire del 1992, il fattaccio: il soul che fa clamorosa irruzione nell'indie-rock a stelle e strisce. Certezze che vacillano. I suoni della fabbrica di Seattle messi al servizio della musica dell'anima, come nessuno da quelle parti e altrove aveva mai osato fare. Risultato: quindici minuti di mirabilie. E non è che, in alcuni casi, la materia prima fosse di una lega super pregiata. Ascoltate la Freda Payne di Band of gold e confrontatela con la versione qui presente, dove tamburi ancestrali, chitarre sanguinanti sul limite della distorsione e il consueto cantato da vena gonfia di Dulli paiono l'introduzione ad un rito voodoo più che un danzerino hit northern-soul. Né può risultare meno sorprendente la trasformazione della garrula allegria fanciullesca di Diana Ross e "suprema" compagnia in una Come see about me che i Nostri prosciugano di tutta la zuccherosità pop tipicamente Motown, donandole viceversa accenti e intensità che, penso, abbiano fatto venire gialli d'invidia Michael Stipe e Peter Buck. Neanche a fronte di un colosso quale Al Green, Dulli e soci riescono a pagare pegno. La Beware del Reverendo, seppur privata dei languori interpretativi e di un'orchestrazione errebì da far tremare le vene e i polsi ( Willie Mitchell e il suono Hi, ovvero l'età dell'Oro del soul memphisiano), si trasmuta in un tour de force emozionale in grado di congiungere come raramente accadde Dylan con Neil Young, chitarre come rasoi che si fanno il filo sull'anima e un cantato che invece di comprimersi pare trovare gioia nell'eruttare male di vivere. Per finire, tre minuti e poco più d'immensità che, se anche la firma non è autografa (Owens-Frazier, un dono a quel campione confidenziale a nome Percy Mayfield), un posto d'onore te lo sei comunque guadagnato per sempre: True love travels on a gravel road non è una semplice canzone, è un rito sciamanico, un dialogo notturno da parte dei nativi americani con gli spiriti della Terra, quasi a volere riunire tutte le razze che hanno calpestato il suolo americano, batteria spazzolata che è soffio di vita e un salmodiare di chitarra (adesso ti devo per forza citare, grandissimo Rick McCollum, sia sempre lode a te) che col suo tremolo sembra parlare non a noi povere cose ma agli elementi. Insomma, i Bad Seeds al loro meglio, però meglio. Da rimanere attoniti.

Perciò, me le ricordo le facce di quei giovani. Oh se me le ricordo. Perché soprattutto ricordo bene la mia.

Come un temibile Profeta, alzando l'indice della mano, Dulli parve allora davvero l'inviato di qualche Entità Superiore, incaricato da questa di ammonire il rock dicendogli: "Ricordati che sei nato nero e nero devi tornare". Cam e Jafet non siano più divisi. Perchè sì, anche questo più che mai era, è e rimarrà soul. Anche quando lo chiamano grunge.

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