Fine anni Sessanta. Periodo di inquieta e appassionata sperimentazione, tra scintillanti derive psichedeliche, vertiginose fughe nel futuro e indicibili visioni astrali. Quando sembrava che lo spirito di quell'epoca potesse essere rappresentato unicamente dai profeti dei tempi mutanti, fece irruzione sulla scena un quintetto apparentemente composto da mormoni persi nei sentieri della West Coast.
Nel 1968 Robbie Robertson, Garth Hudson, Rick Danko, Levon Helm e Richard Manuel debuttarono in proprio, dopo i gloriosi anni passati a spalleggiare Dylan nel più sconvolgente degli abbrivi della storia del rock, dal celeberrimo tour del 65-66 al Sacro Graal a 33 giri di "Blonde on Blonde". Il risultato fu il classico fulmine a ciel sereno, quel "Music from Big Pink" destinato a imporsi in brevissimo tempo come pietra miliare della musica americana. Le undici composizioni qui presenti spianarono la strada ai coevi Byrds di "Sweetheart of the rodeo" e ai vari Gram Parsons e Neil Young, affermando la tendenza del country-rock e aggiungendo un tassello fondamentale all'evoluzione del pop-rock.
Ma c'era di più. Ci sono gruppi, pur immensi, che si limitano a fare musica. Altri disegnano universi, schiudendo le porte della percezione per renderle accessibili in musica alle masse. La materia sonora plasmata dall'ensemble canad-americano andava a fondo, sfrondava le radici folk e blues dei padri, esprimendo una sontuosa e ricercata commistione in grado di forgiare il definitivo codice del roots rock americano. Il gruppo in realtà era una piccola orchestra di fenomenali polistrumentisti, e il sound di "Music from big pink" è talmente intricato, ramificato, lussureggiante da sembrare una feconda, grande pianta del Sud. Musica romantica e visionaria, sorretta da un songwriting smagliante e temprata dai climi delle immense distese americane di cui funge da colonna sonora. Fu indubbiamente questo il quid di The Band: rievocare i miti dell'America più vera e recondita in un periodo di viaggi esoterici e lisergici, nonché di laceranti conflitti sociali. Un apparente corto circuito generazionale che invece produsse una mistica americana che si nutriva di territori perduti, di eroismi sulla frontiera, di microcosmi dal sapore epico e biblico in grado di rivelare la struggente umanità nascosta nei polverosi bauli dell'Impero. Un'intera generazione ne fu conquistata, prova ne è che il brano più famoso del lotto, la magnifica danza western "The weight", sarebbe apparso nel film culto di quegli anni, "Easy rider", di cui sposava l'ansia di vivere e l'immaginario dei grandi spazi aperti. Non sono da meno i restanti episodi, tra i quali non si possono non citare "Chest fever", con quell'incredibile incipit di hammond di Hudson, "This wheel's on fire" con la magica e affilata chitarra di Robertson (essenziale nel raccordarsi agli altri strumenti, senza eccedere in virtuosismi inutili) e la sezione ritmica più poliedrica che si ricordi e condurre le danze, la dolcezza sussurrata di "Lonesome Suzie", le iridescenti e articolate armonie di "To kingdom Come" e "Caledonia Mission", il sommesso incantesimo country-soul di "In a station", fino al capolavoro assoluto "Tears of rage", in cui la voce di Manuel (co-autore del pezzo con Dylan) tratteggia scenari steinbeckiani da Grande Depressione, appoggiandosi su un tappeto sonoro semplicemente perfetto, scandito come sempre dai peculiarissimi intrecci tra l'organo bachiano di Hudson e il piano dello stesso Manuel.
La magia di The Band non sarebbe durata a lungo. Un altro album mozzafiato (l'omonimo del 1969), quindi un progressivo declino, fomentato dal freddo vento dei Seventies, fino al celebre addio, immortalato dall'ultimo valzer di Scorsese.
Richard Manuel sarebbe stato in seguito il caduto più illustre, appeso a una corda in un hotel sperduto. Lo spirito del quintetto però aleggerà per sempre in quella linea immaginaria oltre la quale i nostri sogni sono proiettati e che, maneggiando i suoi multiformi linguaggi, ci sembra ancora tangibile e vicina.
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