Recensire il "Sgt. Pepper's" è diventato ormai un'usanza logora ed abusata per gli addetti ai lavori. Essendo anch'io uno dei potenziali roditori, ne approfitto esclusivamente per dire la mia in occasione degli otto lustri di resistenza, allungando semplicemente un brodo di eccellente qualità.

L'album in questione, delinea in tutta la sua completezza, la grandezza di coloro che lo hanno composto. I Beatles, fino al 1964 (appena due anni di attività) erano stati ingigantiti dal potere mediatico della stampa, della radio e della televisione, dai deliri di massa mai visti prima e dalle pur sempre orecchiabili canzoni che hanno costellato a mò di barriera corallina, le estremità superiori delle classifiche mondiali. Non dimentichiamoci però che nel periodo de quo esistono anche degli spunti di piccola genialità ancora in status di apprendistato, contrastati dai soli Rolling Stones.

Nel 1965 inizieranno a stufarsi delle spossanti tournèe fino ad abbandonarle definitivamente nel 1966. Estenuanti scale di concerti che defluivano in una massacrante ridda di urla deliranti, pianti, svenimenti e volontarie scotennature. Una mistura di rumori provocata da erinni, talmente ingombrante da coprire quasi i suoni provenienti dal palco, tanto che i poveri Fab4 avrebbero potuto cantare "San Martino, campanaro" senza che qualcuno se ne accorgesse. Nel frattempo vengono pubblicati "Rubber Soul" e "Revolver", che raccolgono consensi intercontinentali nonostante le botte prese a Manila, la bestemmia perdonata di John Lennon e la condanna al rogo delle opere finora vendute e poi riacquistate. Ma questo è un altro discorso.

Il primo giugno del 1967 la musica si prende una pausa per lasciare spazio al più grande album della storia del rock. Senza alcuna remora e nessun rimpianto scaturito da frasi fatte et aut mezzi termini. Il "Sgt. Pepper's" dovrebbe venire protetto da una custodia inespugnabile per evitare attacchi di qualunque agente deterrente di matrice naturale o artificiale. Lo dice anche l'ultimo censimento del "Rolling Stone" per chi avesse ancora qualche dubbio. Che possa piacere o meno è naturale ma mi guarderei bene intorno prima di azzardarmi ad affermare che si tratta di un disco senza valore. Sicuramente dopo aver detto ciò inizieranno a piovere le solite proteste di chi non ha compreso il punto. Chiunque può dire che Mozart non ha scritto "Eine Kleine Nachtmusik" o che Guttuso non ha dipinto "La Vucciria", ma l'eresia prodotta da costui deve fare i conti con la storia per poi rimediare una sonora sconfitta in credibilità. Chi ama la musica rock e non solo, "DEVE" possedere il "Sgt. Pepper's". A mio avviso e credo non solo mio. Ciò che sto scrivendo non contiene alcuna punta di protervia o albagia di mughiniana memoria. Ci tengo a dirlo. Sono solo un povero recensore dimenticabile che commenta ciò che è stato scritto dalla storia.

I Beatles impiegarono diverso tempo per scoprire e trasportare su un registratore a "quattro" piste le sonorità gentilmente offerte dalla natura o magistralmente ricavate dalla creatività di ognuno. A partire dall'assolvimento di un brusio di astanti di qualche luogo indefinito, accompagnato da musicanti in fase preparatoria che viene squarciato da una poderosa chitarra elettrica che ne denota l'incipit. Siamo la Banda del club dei cuori solitari del Sergente Pepe e senza alcuna pretesa siamo qui per farvi divertire, basta seguirci e non ve ne pentirete. Mai un messaggio di invito così azzeccato e innovativo. Messaggio che si scioglie in un tripudio di colori scintillanti che decorano ogni spazio vuoto lasciato dalla musica antecedente a questa opera monumentale che sfavilla in tutta la sua durata.

Dopo l'avvio esplosivo si cede il passo ad un più quieto Billy Shears (Ringo Starr) che invita, con la sua voce non eccellente ma incredibilmente sincera ad andare oltre, a non fermarsi di fronte agli ostacoli, magari con un piccolo aiuto da parte di qualche amico o persona di cui ci si può fidare. Canzone che scivola leggera fino alla sua conclusione, da dove nasce la seconda overture dell'album, "Lucy in the sky of diamonds". Una overture di matrice psichedelica, a tratti mistica, che dona nettare a tutte le altre feritoie affamate dell'opera. Voci metalliche, ovattate, mai sentite prima dell'epoca, distorte, sapientemente manipolate, si insediano nelle tracce avvolte da semplici ma ferrosi riffs di chitarra elettrica e da suoni tuttora ineguagliabili (nell'epoca digitale!). Cori a volte docili, altre malinconici accompagnano le voci limpide di "Getting better" e "Fixing a hole" fino a terminare nella spugnosa e variopinta "Being for the benefit of Mr. Kite", tratta addirittura da un manifesto.

Da qui parte la terza overture. La nuvola di brezza indiana "Within you without you" riesce a penetrare in ogni angolo recondito del'immaginazione umana se ascoltata come si deve. Il sitar e la tabla sono strumenti degni di questa discesa nelle pure profondità sommerse dal bieco materialismo quotidiano. George Harrison insegna a meditare sui concetti vitali e suggerisce ai seguaci invitati all'inizio dell'opera a fare come lui. Il risultato è eccellente e ciò viene evidenziato dal pezzo che segue, "She's leaving home", tratto da un ritaglio di cronaca realmente accaduto. La canzone è meravigliosamente anomala, rispetto ai canoni dei Beatles, in quanto interpretata dalle sole voci accompagnate da archi ed arpa. I timbri dei vari cantanti si accavallano dolcemente come veli sovrapposti lasciando trasparire una leggerezza che pervade l'intero corpo del poema prevalentemente raccontato da McCartney.

Non poteva mancare l'overture commerciale anticipata però da un simpatico racconto che un nonno farebbe al nipotino in "When i'm 64". Sarebbe stato fin troppo perfetto e quindi l'assalto delle orchestrazioni pesanti e metriche inadeguate, pur con qualche punto di rilievo, (l'assolo finale di pianoforte in Lovely Rita) sembra quasi lecito. "Lovely Rita", appunto e "Good morning good morning" non danno molta incisività all'opera. Più che altro trattasi di pretesto per invitare i seguaci ai ringraziamenti della banda, con la speranza di un nuovo afflusso che si legge nella ripresa di "Sgt. Pepper's". Al termine di essa avviene il miracolo. Dalle voci festanti che si dissolvono nasce una semplice e limpida chitarra suonata da John Lennon che inizia a cantare "A day in the life".
"A day in the life" è storia. Innovativa nella metrica, nel concetto, nelle sonorità, negli effetti. E' il testamento scritto dai Beatles prima del tempo. Ciò che viene dopo è copia. La storia di ogni comune mortale raccontata da potenti vortici di archi e ottoni che spaccano con violenza ogni confine temporale, in 5 minuti e poco più incluso il solco interno. Commenti percussionistici irregolari delineano il potere di fare musica, di realizzare corse contro il tempo di eccezionale intensità.

Opera maestosa da ascoltare in religioso silenzio che evidenzia la grandezza dei Beatles da ogni angolo. Ripeto con evidenza che tutto ciò è nato da testi già scritti per la storia. Un docile commento a ciò che è stato già ampiamente raccontato. E senza alcuna superbia, anzi con simpatia voglio concludere con una nota. Chi ama la musica e dice che il "Sgt. Pepper's" è un album ininfluente et aut di scarso valore, vada a confessarsi. Ha appena bestemmiato. E ciò posso dirlo perchè ho le spalle coperte dalla storia.

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