Festeggiamo assieme il quarantennale di 'Sgt. Pepper' con un'analitica disamina delle canzoni in esso contenute. Si dice, giustamente, che l'album in questione è stato il modello - per molti insuperato - di tutta la musica pop rock degli ultimi decenni, la pietra d'angolo su cui si regge la cattedrale della musica di consumo divenuta adulta.
Furbo giudizio di critici nostalgici e di giovani epigoni privi di senso critico, o acuta analisi socio musicologia? A prescindere dalle opinioni di ognuno, credo che la trita formuletta trascuri sempre di dirci di "quale tipo" di musica è modello l'album in commento. Ai posteri l'ardua sentenza, mentre i poster dei Beatles in tante camerette mi sembra abbiano già detto la loro.
Per quanto mi riguarda, sulla scia del mitico Paolo Ziliani, dico:
Sgt. Pepper's Lonely Hearts Club Band : titletrack dell'album, dai suoi proto hard rock ritenuti molto originali per l'epoca. L'avvio è effettivamente calzante, con una chitarra mai così pesante e attenta alle tessiture ritmiche; timbri vocali indiavolati il giusto mentre si racconta della band del sergente Pepper. Meno convincente e persuasivo il ritornello, in cui si smorzano e rallentano le tonalità e le ritmiche: l'effetto, straniante, toglie al pezzo quella carica di aggressività che lo caratterizzava. Pur inferiore ai coevi brani di rock "duro" di Who, Rolling Stones o Kinks, ha forse il pregio di introdurre a questo genere di musica gli ascoltatori e le ascoltatrici più disattente, quasi a compendiare il già sentito rendendolo più appetibile. Ovvio che con ciò si depotenzia la stessa carica eversiva del nascente hard rock, degradandolo a musica per famiglie: di qui, forse, la nascita di tanto fm rock, aor etc. etc. che circolò per le radio a partire dagli anni '70. Sempre di qui, il malvezzo di abbellire molta musica pop con fraseggi o gratuiti assoli di chitarra elettrica che poco c'entrano con tal genere musicale (pure la Pausini lo fa). Occasione sprecata.
With a Little Help from My Friends: la melodia la fa a padrone, come pure il solidarismo che sembra caratterizzare il pezzo, con indubitabile flavour of Summer of Love. Brano forse più noto per la storica cover che ne fece qualche anno dopo Joe Cocker, ma ad ogni buon conto un buon pezzo pop. Costituisce il modello (sempre involontario) del tipico anthem da stadio, seguito per esempio dai Queen di "We will rock You", "Friends will be Friends" ed altro. Ma gli esempi potrebbero, ovviamente, continuare. Oggi può sentirsi negli intrattenimenti danzanti di professionisti ultracinquantenni, o alle feste dei vari ordini professionali, con buona pace degli amici di un tempo e delle illusioni di fine anni ‘60. Nostalgico.
Lucy in the Sky with Diamonds: simpatico pezzo di pop, con venature psichedeliche suggerite dall'acronimo composto dal titolo (LSD) più che dalle tessiture sonore rispettose di certa tradizione beatlesiana. Sempre efficace la melodia, un po' stucchevole il ritornello, quasi infantile nei suoi sviluppi. Ancor oggi si discute circa la presunta volontarietà del gioco di parole, che ha reso sempiterno un pezzo che, nell'insieme, non appare certamente il migliore dell'album, ma che funge da (in)confessato modello di tanto brit pop a venire, dagli XTC ai Blur, passano per Oasis e, scorgendola nel groviglio sonoro, persino My Bloody Valentine. Ispiratore, più che ispirato.
Getting Better: le continue fughe corali e l'incisiva melodia caratterizzano uno dei brani più riusciti dell'album. La semplicità di fondo ben si accorda con uno sviluppo incalzante e facilmente memorizzabile. Al pari della titletrack, anche questo pezzo sembra volgarizzare il nascente hard rock, per cui rinvio integralmente a quanto detto sopra. Occasione sprecata bis.
Fixing a Hole: si torna con più convinzione in un terreno psichedelico, sia per quanto riguarda il testo sia per quanto attiene allo sviluppo prettamente musicale. Il brano ha un bell'andamento ipnotico che non sarebbe dispiaciuto al miglior Barrett, anche se, chissà come mai, io lo assocerei anche a Nick Drake. Condito di qualche divagazione strumentale in più sarebbe stato un brano quasi acido, ma, come ben si dovrebbe sapere, la competenza tecnica necessaria ad ordine queste trame sonore non faceva parte dei quattro di Liverpool, per cui, a quarant'anni di distanza, il pezzo rimane in testa per il ritornello e poco altro. Un pezzo, che, in mani di altri, sarebbe stato un capolavoro. Vorrei ma non posso.
She's Leaving Home: tediosa ballata beatlesiana, sembra il classico riempitivo buono ad accontentare il pubblico meno esigente e attendo alla melodia, o forse il pubblico femminile meno smaliziato che, all'epoca, orfano dei caschetti dei quattro, cercava di districarsi nella complessità apparente delle trame sonore dall'album. Pezzo stiloso e sostanzialmente innocuo, sul quale avrebbero vissuto di rendita decine e decine di gruppi, inserendo in album anche ambiziosi la classica ballad strappa cuore e placa animi. Per dire, anche i mitici di Led Zeppelin lo fecero in "In Through di Outdoor" ('79), con All my Love, il cui titolo di lavorazione, non a caso, era "The Hook" (l'uncino), ovvero "l'esca" per il pubblico meno maturo. Furbetta.
Being for the Benefit of Mr. Kite! : autentico capolavoro dell'album, e forse dell'intera carriera dei quattro di Liverpool. Il vaudeville si mischia alla psichedelia in un pezzo vorticoso, che non sembra avere punti deboli. Per intenderci, superiore a tanta musica contemporanea e, forse, all'intero "Piper" dei Floyd. I più colti spiegherebbero questo pezzo ricorrendo al noto concetto di "eterogenesi dei fini", dato che, vista la pochezza musicale del complesso - fatto essenzialmente di attenti melodisti - sembra difficile attribuire ai Beatles l'intenzione di prodursi in una simile gemma, irridente e beffarda quasi come uno scherzo zappiano. Che il plauso spetti a Georger Martin? Poco conta, se non il fatto che oggi questo pezzo non se lo fila nessuno, e che, per sua fortuna, non lo sentirete suonare in alcun intrattenimento danzante per professionisti sessantenni. Chapeau.
Within You Without You: pezzo in cui Harrison mette in mostra le sue capacità per l'allora esotico sitar. Atmosfere esotiche e dilatate, analoghe a certi trip dei Grateful Dad. I nostri sembrano dimostrare di essere un gruppo adulto, propenso ad abbandonare le facili e piacevoli canzonette da classifica come pure il merseybeat delle origini. Il dubbio è, ovviamente, che l'intenzione fosse del solo Harrison, al quale viene concessa una divagazione, un'ora d'aria prima di rientrare nei ranghi. Poco male, in ogni caso. Mi piace pensare le trame ossessive del brano siano state riprese, nei decenni successivi, da chi vede nella musica più espressione che melodia, come Sonic Youth, Slint etc. (i quali forse avevano come modello più i Grateful che i Beatles, ma tant'è). Allucinogeno.
When I'm Sixty-Four: pop d'alta classe dal testo che sentito oggi spinge alla tristezza, vista la morte precoce di Lennon e dello stesso Harrison, che non hanno mai raggiunto l'età di cui si canta. Contr'altare di My Generation degli Who - i quali speravano di morire prima di diventare vecchi (riuscendoci in parte), denota forse meglio di ogni altro brano il carattere essenzialmente conservatore della proposta musicale del quartetto di Liverpool, ed è non a caso posta dopo il picco sperimentale dell'album, quasi a ricondurre all'ordine le fughe in avanti del pezzo precedente. L'ascolto è piacevole, ma traspare sotto traccia una certa piattezza e uniformità, oltre a scarso interesse strumentale. La quintessenza dei Beatles più rassicuranti, pertanto. Prevedibile.
Lovely Rita: simpatico pezzo hard pop, si pone sulla scia di Gettin' Better, pur essendo molto più edulcorato sotto il profilo sonoro. Tipica canzonetta dedicata alla lei di turno, può far sdilinquire ragazzi e ragazze, colpendo in pieno il target del pubblico giovane cui si rivolgevano i quattro alfieri del bel canto inglese. Valgono in sostanza i rilievi effettuati per When I'm Sixty Four e Lucy in the Sky with Diamonds. Chissà quanti professionisti attempati - in gioventù - hanno dedicato questo pezzo alla loro prima Lovely Rita, ovviamente seguita da una teoria moglie, compagne e/o amanti che hanno forse ridimensionato l'amore di un tempo. Trascurabile.
Good Morning Good Morning: allegro pastiche dalle inflessioni psichedelico bandistiche, conduce alla parte finale dell'album rilanciando le attitudini sperimentali del quartetto e del loro ingegnere del suono. Certamente uno dei picchi dell'album, sia per l'arrangiamento, affollato di interventi di strumenti a fiato, rumori assortiti e cori, sia per l'interessante alternarsi di melodie. Nulla da invidiare a nessuno. Ri - chapeau.
Sgt. Pepper's Lonely Hearts Club Band (Reprise): apparente chiusura dell'album con il pezzo trainante. Idea interessante, poi ripresa da miriadi di gruppi, fra i quali ovviamente i Floyd di "The Wall". Valgono per il resto i rilievi svolti in ordine alla titletrack.
A Day in the Life: alcuni critici l'hanno definita come la più bella canzone di tutti i tempi. Altri come un pezzo s'avanguardia in cui il pop si mescola per la prima volta alla musica classica. Sbagliano entrambi. Si tratta, in sostanza, di un semplice e melanconico pezzo pop al quale viene aggiunto un'efficace turbinio d'archi e di effetti rumoristici che enfatizzano i toni drammatici dei testi. La commistione fra musica classica e pop era stata già efficacemente sperimentata - con ben altro spessore culturale - dallo Zappa di "Absolutely Free" ('66), mentre non basta l'aggiunta di archi ad un brano per qualificare un pezzo come un capolavoro. La canzone risulta tuttavia essenziale per comprendere certe antipatiche e pretenziose derive della pop music del quarantennio successivo, spiegando meglio d'ogni altro esempio la tendenza ad infarcire le canzoni pop e rock con pesanti arrangiamenti orchestrali, credendo che ciò conferisca ad esse una dimensione più matura e adulta: ci caddero i Procol Harum, i Pink Floyd, addirittura i Rush di "Power Windows" o gli Smashing Pumpkins di "Tonight", per non parlare di tutto il pop sanremese che si ascolta annualmente. Meno servile nei confronti della musica classica, oltre che più spontaneo ed intelligente, il "Concert for Group and Orchestra" dei Deep Purple. Funesta.
E' difficile giudicare quest'album senza scontentare alcuno. Il giudizio datelo dunque voi.
Suppongo segua "er dibbbattito".
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