E' quasi incredibile a dirsi e sembra assurdo parlarne, ma anche i Rolling Stones hanno avuto una loro remota età dell'oro. Dunque non siamo di fronte nè ad uno di quei nomi inspiegabilmente famosi, né ad eterni palloni gonfiati o ridicoli buffoni. Insomma non siamo al cospetto di nomi farlocchi del livello di Queen, Eagles, Elton John o Guns'n'Roses, bensì, di un gruppo che da oltre trent'anni continua a rovinarsi coscientemente una gloriosa ed illustre reputazione. Un po' per malattia, un po' per egoismo, "un po'" per "nobilissimo" scopo di lucro, i nostri hanno deciso di protrarre inutilmente un progetto di cattivissimo gusto, fatto di schiamazzi fuori tempo e fuori luogo, e meschine apparizioni caricaturali. Tanto si potrebbe scrivere a proposito degli Stones spappolati ed imbranati, ma è anche vero che loro sono gli unici che possono davvero permettersi di fare così schifo. Il motivo è presto spiegato: il primo decennio di carriera vale più delle carriere di U2, Who e Led Zeppelin messe assieme, e non è un'esagerazione. Il peso specifico degli Stones nella storia del rock ha pochissimi eguali: R. Johnson, Berry, Dylan, Beatles, Young, Lou Reed e Velvet Underground sono gli unici artisti a potersi realmente affiancare al nome Rolling Stones, e al diavolo David Bowie, Frank Zappa o Captain Beefheart. Meritano profondo rispetto soprattutto da quella miriade di giovani ignoranti sboccatelli (Oasis su tutti) che fanno il mestiere che fanno solo per merito di chissà chi. Gli Stones hanno totalmente ridefinito i canoni della musica rock, portando il rockettino di Chuck Berry ad un livello artistico decisamente più complesso ed elevato. A parte i grandi singoli di metà anni sessanta ( Satisfaction, Get off of My Clouds, Paint it Black), ciò che più conta della loro età dell'oro sono quei cinque album che per sempre saranno ricordati nella storia del Rock: Aftermath, Beggar's Banquet, Let it Bleed, Sticky Fingers, Exile on Main Street. Ecco qual è il loro peso specifico. Una rock band che nel proprio momento di ispirazione non può essere paragonata a nessun'altro. Nè  agli Who, nè ai Led Zeppelin, nè ai Doors, nè agli Allman Brothers Band, nè a Bruce Springsteen.

Tra gli album sopraccitati menzione a parte va fatta per Exile on Main Street, album senza del quale non sarebbero mai esistiti Tom Waits, Patti Smith, Springsteen e persino i migliori album di Neil Young (vedi Tonight the Night, On the Beach, Zuma) e U2. Nessuno si sarebbe mai aspettato che dopo Sticky Fingers gli Stones potessero comporre un album simile. Quattro facciate di vinile per un totale di venti nuovi sudici e grezzissimi brani. Sembra essere il primo album della band per l'approccio stilistico-artistico adottato: registrato nella cantina della casa parigina di Keith, questa è materia che ulula di scantinati e bassifondi, di spiriti anarchici. Il disco, di gran lunga il più sguaiato e grezzo del catalogo, è considerato il più grande album di blues bianco che sia mai stato realizzato, una specie di memorabile furto a "danno" o a favore dei neri. Quattro facciate di blues, rock and roll, country, soul e gospel gettate in un marasma generale volutamente sfilacciato nel quale la voce quasi mai in evidenza lascia spazio ad una prorompente e mai più così vigorosa band. Da qui in poi gli Stones non saranno più gli stessi ed imboccheranno un lungo declino che dura ancora oggi. E non è neppure vero che l'album sia così perfetto, come molti dicono; anzi ci sono addirittura un paio di canzoni tappa buco (Loving Cup e la monotona cover di Stop Bringing Down). Ma ciò che rende veramente grande quest'album è il totale disinteresse da parte dei Nostri del denaro. Si respira infatti in modo distinto e palpabile il gusto di fare della musica "arte"con la A maiuscola, nel modo a loro più congeniale, ossia lasciando fluire senza nè freni nè "inibizioni" il fiotto continuo e imprevedibile dell'ispirazione. La grandezza di quest'album sta proprio nella sua totale imperfezione formale, nel frenetico, disordinato e caotico modo con cui è venuto alla luce, nei colpi di tosse di Keith Richards in Happy e nelle urla scomposte e animalesche di Jagger a venti centimetri dal microfono. Un suono saturo, pigro e sudato, una palla di fuoco fatta di sbronze, risse e tossicodipendenza. Exile on Main Street è l'esempio più forte di totale fusione simbiotica tra vita e musica. Una selvaggia creatività mirabilmente immortalata in questo affresco sub-urbano di spietate, crude ed iperrealistiche  immagini in bianco e nero. Cinque grandi artisti nel momento di più grande genialità, violenti e tossicodipendenti, ma non per banale e sciatto esibizionismo, bensì per nutrire quella stessa bestia che viveva dentro di loro: Il Blues.

Quella stessa musica che inghiottì nelle tenebre Robert Johnson?... per questo e per molto altro, nel bene e nel male, God Save The Rolling Stones.

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