Premessa: Mi scuso in anticipo…

la recensione è venuta talmente lunga che ci invecchierete nel leggerla. Ma cercate di vedere i lati positivi: una volta finita, avrete la barba lunga come Gandalf e sarete finalmente andati in pensione… Se questo non vi basta, visto che oggi mi sento generoso, vi prometto che chi riuscirà a leggerla tutta avrà in regalo il pregiato vinile dell’ultima collaborazione tra i Cannibal Corpse e Marco Carta, ovvero “Anal destruction Of The Heart”.

L’esordio “New Views” degli svedesi Tribute si colloca nell’orwelliano 1984. Di loro si sa quasi niente, e non vi dico che fatica rastrellare sul uebbe qualche informazione per spandere un (tenue) alone di luce sul misterioso manto di tenebre che li avviluppa.

Primo problema: come “etichettare” la band? In parole povere: in-che-cacchio-di-genere-li-si-può-incasellar?

Progressive rock? Crossover? Rock sinfonico? Folk celtico? New age? Disco? (sì, ci sono armonie degne degli Abba, d’altronde sono conterranei), Synth pop? Zampognari thailandesi? Percussionisti di scheletri di mammut provenienti dai deserti di sale? Grey Metal (una nuova corrente musicale che è una via di mezzo tra l’oscuro e ansiogeno disco reggaeton a cui sta lavorando il papa da anni, in collaborazione con Enrique Iglesias, e le solari e oltremodo rilassanti atmosfere del primo Burzum)?

Ora, a mio modesto parere la domanda giusta da porsi è: ma-che-cavolo-mai-ne-posso-sapè-io?

E’ infatti inutile sottolineare che con i de-generi sono una pippa, e che questo disco risulta ai miei timpani, di anno in anno sempre più sottili a causa dell’usura, come un succulento fritto misto. Passiamo dunque alle (pochissime) informazioni che ho…

…Nonostante negli anni 80 saltellassero come cavallette impazzite da una città all’altra in un’estenuante tour tra madrepatria, Germania e Olanda, i ciddì e i vinili che incisero rimasero per molto tempo una succulenta rarità per una ristretta nicchia di bocche. Un pò come la prelibata sogliola di terra, estintasi purtroppo prima del Big Bang.

Questo almeno fino a quando, qualche anno fa (nel 2012, perché a noi ci piace essere assai esatti), l’etichetta Sireena Records, bontà sua, decise di ristampare il loro sacrosanto esordio in digitale, sfamando così diversi palati che se l’erano perso in quel lontano 1984 dimenticato dalla Signora (intendo Madre Natura, recentemente rimasta vedova da quando Friedrich gli stecchì con tre lapidarie parole il poco amato e tirannico marito, cabarettista e illusionista a tempo perso. Egli era altresì noto al grande pubblico col semplice nome d’arte “Dio” - da non confondere col celebre Ronnie James, morto anche lui quando Dio, con diversi decenni di ritardo, scoprì che gli aveva fregato il nome d’arte).

Ora vi starete chiedendo: Ma chi accidempoli sono questi Tribute? Chi tributano? Sono un’ennesima cover band che ripropone le celebri canzoni dello Zecchino D’Oro in chiave grindcore, forse?

Come sempre, la risposta è dentro di voi; epperò è sbagliata!

I Tribute, infatti, consistono in quella che può essere definita una micro orchestra rock: il polistrumentista e piccolo genio Gideon Andersson (suona il basso, la chitarra, il mandolino, il tamburo- e, insieme a Christen Rhedin, è anche l’autore di quasi tutte le musiche-) accompagnato dalle sue due sorelle, Lena e Lina (la povera Lana era stata tosata da poco e quindi non potè unirsi al gruppo per buona parte delle registrazioni: la lasciarono a pascolare pigramente l’erba incolta che cresce ai piedi delle alture scandinave)…

…Dov’eravamo? Ah, sì: le due sorelle, oltre a suonare le percussioni e i tamburi, cantano anche in alcuni brani, aggiungendo un’originale spolveratina new age alle musiche, che ci sta come il cacio sui maccheroni.

La band comprende anche il già citato Christen Rhedin (che suona tastiera, pianoforte a coda, percussioni e che ha collaborato con gli Abba nel famoso brano “Mamma Mia”), Dag Westling (chitarra elettrica, voce), Per Ramsby (tastiere anche lui), Åke Ziedén (chitarra e basso) e Pierre Moerlen (batteria e percussioni).

E poi xilofono, vibrafono, marimba e sì, anche le campane tubolari tanto care al vecchio Mike, i cui ultimi album sono piuttosto deludenti perché a furia di girare per campi ha più forasacchi nelle orecchie di un cocker dello Yorkshire, ed essi gli hanno impedito di accorgersi di aver già inciso 120 versioni di “Tabular Bells”.

Avrebbe dovuto partecipare all’incisione anche un sassofonista, il cui compito era suonare una cisterna vuota, ma ci furono problemi tecnici perché pare che la sua bocca non fosse abbastanza ampia.

Gli altri membri della band desideravano che si sottoponesse a un’operazione di chirurgia estetica, ma non ne volevano sapere di contribuire economicamente. Oltre a questo interessante gossip, la band, non avendo molti fondi, voleva rubare la cisterna dell’acqua dal prato del vicino, ma non sapeva come trascinarla in sala di registrazione.

Nonostante erculei sforzi (pare che i galantuomini si siano andati a bere un liquore al baretto del villaggio, affidando alle tre sorelle coriste la lieta mansione) non riuscirono a trasportare la cisterna nello studio, e Lana (la brucatrice) si fece anche impallinare la chiappa destra dal Winchester del vicino, un vecchio burbero che alle 6 del mattino era già al terzo whiskey e che poteva sopportare che due donne cercassero di fregargli la sua preziosa cisterna, ma che lo facesse anche una capra proprio no.

Ma passiamo alle musiche che, nonostante la mancanza della cisterna, non sono deludenti: il sound della band è sicuramente più influenzato da Michele Campovecchio che da altri artisti della scena progressive, ma è molto più tirato e meno psichedelico, più esteta e meno intellettualoide.

E’ lo spirito progressivo dell’era ottantiana, come testimonia un uso dei synth più scatenatamene pop, che dipingono motivi vivaci e trascinanti, più fisici che cerebrali. Quindi scordatevi il prog-rock sperimentale e giezzoso di Soft Machine e soci: c’è sì un lieve tocco jazz, ma i Tribute non brillano per cervelloticità e imprevedibilità avanguardistica.

Questo, probabilmente, è il loro unico difetto; ma, tramite il sapiente uso di un’eleganza levigata quanto rara e di una ricercatezza dell’armonia da fuoriclasse, riescono a loro modo a trasformare questa “debolezza” in un pregio.

La loro musica ha un piglio euforico, febbricitante, a volte persino aggressivo. Le loro arie sono elettrizzanti, spesso pompate allo stremo: i musicisti riescono a trasformare semplici motivi, retti sui riff di tastiera, in cavalcate sinfoniche mozzafiato.

I brani sono perlopiù strumentali, ma (quando meno te lo aspetti) le due sorelle enyose si sbizzarriscono con ariose melodie trascendentali. I loro poco terrestri cori tratteggiano soffici e delicati acquarelli new age, di una purezza quasi pudica; ma loro lo fanno così, giusto perché lo sanno fare e quindi state zitti che sono timide e si offendono già solo se poste davanti alla semplice curiosità.

SPOILER: so che questo è il tipico momento in cui smetterete di leggere questo orrido guazzabuglio di parole e vi ritirerete al cesso a meditare sul senso della vita.

Bene, è mio dovere morale avvertirvi che stamattina ho venduto una copia di questo amabile ciddì a vostra moglie (copia tarocca, ovvio), e che proprio adesso, mentre voi vi accoccolate sulla tazza e afferrate l’ultimo numero di Novella 2000, lo sta infilando nello stereo. Quindi di fatto ascolterete l’album ancora prima di leggere la mia analisi delle canzoni; tutto ciò fa ovviamente di questo un gigantesco spoiler. FINE SPOILER

Canzoni come “Icebreaker” (sempre là ar bare a ‘mbriachavve de liquore, ecchècc…) o “Too much at one time” (della serie, farcitele meno e soprattutto: fumatene una alla volta), si presentano con un piglio duro e compatto, granitico tanto da rasentare l’energia dell’arde-rocche.

Nella prima, una melodia giocosa di tastiera (che con la sua esuberanza mi ha riportato alla mente la mitica “Everyday” del buon vecchio Stiv Acchet) viene così impreziosita da un coro che anticipa di qualche anno la Enya sbarazzina di Onorico Flow (Sail away)”.

Vi si inserisce poi un pianoforte classicheggiante che ci sta a pennello, mentre un basso giezzato e poi il frenetico rullo della batteria gustosizzano il tutto.

Nella seconda le chitarre sono invece preponderanti: elettrica ed acustica si fondono in un’alchimia melodica dal sapore celtico, e verso il finale il brano esplode in uno strepitoso assolo di tastiera.

“Climbing To The Top” e “Unknown Destination” ricalcano bene o male lo stesso schema delle canzoni precedenti: giocosità e grinta adrenalinica sono le caratteristiche preponderanti.

In “A new morning”, invece, il piatto della bilancia pende chiaramente verso la new age: un piano cristallino e una chitarra acustica si intrecciano in un gioco armonico sublime, la trave portante su cui si regge in equilibrio questo tenero madrigale.

Sulla strumentale si innalzano i cori celestiali delle sorelle Andersson (compresa Lana, che aveva finito di brucare i germogli di margherite e che poteva finalmente sedersi senza smadonnare in caprese, al momento della registrazione), che ci trasportano verso l’etere e oltre, fino a perforare le nuvole d’ovatta.

Uno se ne accorge perché improvvisamente, quando partono i cori, non riesce a sentire più un fico secco: e maledice le nubi, che non solo quotidianamente gli pisciano addosso la pioggia, ma in questo caso gli impediscono anche di godere dei metafisici voli pindarici in cui la suddetta musica lo precipita. Comunque ci sono anche gli aspetti positivi: l’ascensione resta un ottimo metodo per non farsi defecare in testa dagli uccelli, anche se, si sa, la loro è l’unico tipo di cacca che porta fortuna.

Un vibrafono (almeno credo) nobilita il brano e ci commuove affrescando la caducità della condizione umana in un paesaggio semi-lunare; ma sono lacrime che non fanno male, e che anzi profumano della serenità malinconica che segue all’accettazione del dolore. Il tutto viene coronato dai pacifici vagiti del flauto che, elegiacamente, tesse una trama melodica di morriconiana memoria.

Ma, diciamocelo "scuro e quadrato”, visto che il “chiaro e tondo” non ci soddisfa: di tutte le canzoni di cui abbiamo parlato finora (apparte l’ultimo brano) a noi non-ce-ne-frega-un-dannato-accidempolo-di-ceppa.

Eggià, perché l’ultima traccia, che dà il nome al dischetto, e che è forse la principale ragione per cui il sottoscritto vi sta propinando questo bel ciddì, vi aspetta al varco per un infartoso agguato: si tratta infatti di una suite monumentale della durata di (quasi) 22 minuti.

Il canto degli uccelli, con cui il mastodontico pezzo si apre, puntualizza subito, senza fronzoli, qual’è la sorgente dell’ispirazione: la natura. L’introduzione, che copre più di un quarto del pezzo, è affidata alle chitarre acustiche, che abbozzano un cantico pastorale in cui si mescola nostalgia dolceamara e pigra rilassatezza. Raramente ho udito armonie folk-new age più delicate e commoventi scrosciare a cascata dallo strumento. Cominciano in sordina e poi salgono di pathos, lievitano fino a raggiungere l’apice, e poi un altro apice, e poi un altro ancora, veloce, piano, per poi accelerare nuovamente, intrecciandosi sopraffinamente con un memorabile riff di sintetizzatore.

Il sortilegio di questi primi otto minuti vive dell’euforica serenità di un momento cristallizzato in una goccia d’ambra, e non importa quanta pioggia scorrerà sulla resina, e se il vento scuoterà l'albero e farà crollare a terra il ramo su cui essa è colata come una lacrima; o se gli agenti atmosferici dissolveranno successivamente il ramo nel terreno. Perché quel singolo attimo, custodito gelosamente all’interno della goccia, continuerà a respirare in una dimensione temporale parallela, una dilatazione spazio-temporale che sconfigge la dama nera nella grande maratona dell’esistenza.

Ed è proprio allora che subentra il coro new age, un’epifania ultraterrena che dura neanche un minuto, perché, all’improvviso, inizia la jam vera e propria: la batteria entra prepotente, un basso funkettoso fa dà scheletro alla melodia ricamata dalle tastiere e poi, brevemente, arriva anche la chitarra elettrica con un eroico riff a coagulare il tutto in un suono sodo e vigoroso.

La jam va avanti per cinque minuti, con i fraseggi degli strumenti che si incrociano perfettamente tra loro, in un sofisticato gioco di specchi.

Poi, repentinamente, tutto crolla, e un coro di poliritmi tribali tratteggiati da differenti strumenti a percussione arricchisce il brano con un inedito tocco di primitiva oscurità, riportandoci all’origine dei tempi e ricordandoci la mitica “A different drum” di gabrieliana memoria.

Si consuma così l’eterno ritorno nietzschiano: la storia del pianeta vi è condensata dentro in minuscole gocce, ognuna delle quali è una diapositiva che ritrae un momento della storia della terra.

Ma non è finita: il ritmo cambia di nuovo, e ricomincia l’ascesa verso le vette metafisiche. Stavolta il coro è composto da voci maschili, a cui si allacciano poi quelle femminili, mentre xilofono e vibrofono (almeno credo) gemono risucchiandoci nuovamente nell’etere; e la chitarra dipinge una melodia epica.

Improvvisamente ci ritroviamo a Natale in Scandinavia, durante il Medioevo: c’è la neve e tutti sono in festa mentre un tripudio di fantasie fanfaresche viene affrescato dalle campanelle sparse in tutta la città, che si chiamano e si rispondono in coro nella brezza cristallizzata dal gelo.

La mente evapora e voliamo lontano dal piccolo agglomerato di casette, planando al di sopra delle cangianti praterie svedesi, fino ad altezze in cui la nebbia si dirada, leccata via dal sole come se questo fosse zucchero filato. Ed è solo quando ci manca l’ossigeno che ricadiamo a picco oltre le nuvole, in basso, tra le virgole volteggianti degli uccelli in volo. L’erba sotto di noi brilla di un verde iridescente e i fiumi sembrano solchi scavati dal pianto stesso del pianeta. Le foreste verdeggianti di conifere custodiscono indecifrabili segreti nei loro meandri penombrati: misteri che neanche le affilate schegge della luce profana riescono a penetrare. Perché l’oscurità è e sempre sarà impermeabile all’arroganza della luce, vanitosa scrutatrice che sacrifica la magia in nome della verità.

Mentre il panorama sbiadisce, il finale si consuma e le chitarre ricalcano giubilanti la melodia del coro, e noi capiamo che la vita è come un circo, che cambia continuamente panorama, ma propone sempre lo stesso spettacolo: tutto muta e tutto resta uguale, e ogni verità trova il modo di essere sincera solo se si riesce a trovare un barlume di autenticità anche nel suo opposto.

Questa, dunque, non è musica: è un inno alla natura, una celebrazione della vita che vibra d’amore come una corda di chitarra tesa tra il mondo materiale e quello celeste.

Quindi, il mio consiglio finale è: vendetevi le vostre zozze e inutili mutande firmate kalvinclain e compratevi il ciddì!

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