Diciamo così: “War” il capolavoro della giovinezza; “Joshua” il capolavoro popolare; “Achtung Baby” il capolavoro della maturità; “The Unforgettable Fire” il capolavoro mancato.

Dopo lo stratosferico successo del disco precedente (11 milioni di copie vendute e un anno in testa alle classifiche inglesi),  gli U2 decisero di fare un album “diverso”. Come disse Adam Clayton: “Non volevamo diventare un’altra “arena-rock band”. Così invece di  “War parte II”, decidemmo di fare qualcosa di più artistico”.

Come non ammirare la sincerità degli U2, e la voglia di non adagiarsi sugli allori. Tuttavia, quando c’è  la voglia di innovare solo per il gusto di fare qualcosa di nuovo, senza avere le basi per farlo, il risultato sarà un fallimento: “Spirito di novità,  spirito di stupidità”.   
Ma gli U2 non erano stupidi,  e allora,  per realizzare le loro idee,  contattarono Brian Eno, il quale, dopo un’iniziale riluttanza,  accettò di produrre il disco – in collaborazione con Daniel Lanois,  che fu il mediatore tra i quattro grezzi ragazzi e il sofisticato produttore. A contattare Eno fu proprio Edge, il chitarrista del gruppo.

Registrato dal 7 Maggio  al 5 Agosto 1984, e pubblicato  nell’ Ottobre dello stesso anno, in questo album nonostante la presenza di diversi capolavori,  diverse canzoni sono solo “abbozzi”, come dissero gli stessi U2,  che hanno sempre denigrato gran parte di questo disco.

Si parte con “A Sort of Homecoming”, una canzone che parla di un viaggio. Nella versione del disco,  la voce di Bono è in gran spolvero e sovrasta la musica,  che, pur essendo efficace,  è messa lì prevalentemente come accompagnamento per la voce. Ci fu troppo poco tempo per arrangiarla con l’arrangiamento che l’avrebbe esaltata di più. Dopo averla suonata dal vivo per qualche mese, durante il tour del 1985, capirono come doveva essere fatta e, durante un sound-check,  ne fecero un vero e proprio remake –  secondo il mio parere  meglio dell’originale. Questa versione, più pulita e più corta anche se con un po’ meno carattere della versione in studio,  con la chitarra di Edge più in evidenza.  La trovate  in “Wide Awake America”.   Gli applausi del pubblico vennero aggiunti dopo, per farla sembrare un live. De gustibus decidere la più bella: per me, più bella la versione studio per il cantato, più bella la versione remake per la musica. In nessuno dei due casi  si tratta di un capolavoro, ma  solo di una eccellente  canzone.

“Pride” (dedicata a Martin Luther King)  è la canzone più famosa dell’album.  Uno dei capolavori degli U2.  Il riff iniziale è stato apprezzato anche da alcuni guitar heroes.  Una canzone che venne scritta dai vecchi U2,  quelli del “War Tour”,  durante un sound-check alle Hawaii nel 1983.  A Brian Eno non piaceva molto perché “troppo convenzionale”.   Se leggete le prime due strofe del testo, si capisce che Bono non sta parlando affatto di Martin Luther King,  ma  di Cristo:  “Un uomo che viene in nome dell’amore,  un uomo che viene per giustificare,  un uomo tradito con un bacio”.  Poi i primi due versi della terza strofa riguardano effettivamente Martin Luther King,  ucciso a Memphis nell’ Aprile del 1968.  Gli ultimi due versi della terza strofa sono davvero belli si riferiscono di nuovo a Cristo:  “They took your life, they could not take your pride” (“Hanno preso la tua vita, non potevano prendere il tuo orgoglio”),  che descrivono molto bene l’umiltà con la quale Gesù  accettò la morte.  Il titolo è pessimo: di tutto  si parla, ma non di “orgoglio”.   Altrettanto pessima la posizione: questa canzone meritava – per la sua bellezza e soprattutto per  la  sua vivacità –  di aprire il disco.

“Wire” comincia con un riff alla Edge,  e poi si trasforma in un possente pop-rock. È una canzone  contro la droga,  visto da un amico che cerca di scuotere un amico che continua a farsi. La canzone fu improvvisata da Bono al microfono, e si vede che certi versi dovevano essere limati.  Comunque un buon testo. Un’ ottima canzone, ma,  come pop-rock energico e veloce, non raggiunge assolutamente  “Like a Song” del disco precedente.   

“The Unforgettable Fire”.  Semplicemente stupenda.  L’elettronica usata a regola d’arte.  Le note di tastiera,  unite agli arpeggi delicatissimi di Edge,  e  a dei cori che sembrano respiri affannati la rendono un capolavoro che ti entra dentro sin dal primo ascolto. Melodia bellissima, ma sobria allo stesso tempo.  Il testo è  uno dei miei preferiti:  sembra un uomo alla finestra, che osserva e descrive la città,  con la sua amante accanto, con la quale beve del vino,  e chiede a lei di restare (nella bugia),  ma lei decide di tornare “di nuovo a casa” (“Home again”) dal suo vero compagno,  e allora lui dice a lei: “Se vuoi salvare il tuo amore, salvalo tutto”, smettendo di vivere due vite.   Da brivido il cantato di Bono:  per me   la sua  più emozionante performance.  Questa canzone sarebbe stata un magnifico finale.  

“Promenade” (lungomare) è stata scritta da Bono che, coi primi soldi  guadagnati con “War”,  comprò  una casa sul lungomare di  Dublino.  Il testo vede la prima strofa con Bono che osserva il mondo dalla sua finestra,  dice che lo annoia e preferirebbe salire al piano superiore,  dove c'era la camera da letto… La seconda strofa è Bono che si avvicina a sua moglie dietro il volto.  E la terza strofa sono loro due che vanno in camera da letto a vedere un film,  a bere una coca-cola e ad ascoltare musica.  Insomma il racconto di una serata romantica. Un testo assolutamente inutile, vista la canzone:  un bellissimo lento folk-elettrico, molto malinconico,  che meritava ben altro argomento.  Uno dei capolavori minori degli U2.

“Bad”  è senz’altro uno dei massimi capolavori degli U2.  Sono pochi accordi,  ma si tratta di uno dei quei “capolavori basati sul nulla” che ti lasciano incantati,  perché ti fanno vedere la grandezza che si nasconde nelle piccole cose.   Parla della droga in termini più misericordiosi ma anche più  disperati rispetto a “Wire”.  Si rivolge ad un amico che è caduto in una spirale difficile da superare.  Dice in poche parole: “ Se  potessi aiutarti, manderei via questa tua disperazione, isolamento,  desolazione e  condanna interiore….”.   Il titolo migliore sarebbe:  “Se potessi…”.  Chapeu.

“Indian Summer Sky”  è  un’ altra eccellente canzone, molto ben ritmata – con Clayton e Mullen ben in evidenza.   Per quanto riguarda le liriche,  come disse Bono:  “Il testo voleva dare il senso dello spirito intrappolato nella giungla di cemento delle città attuali”.  L’idea è splendida,  ma il risultato lo  è molto meno.  Un altro abbozzo.

“Elvis Presley and America” è una canzone acustica costruita rallentando e suonando al contrario “A Sort of Homecoming”.  Senz’altro tra le melodie migliori del disco, e per me dell’intera produzione degli U2.  Nettamente superiore a “A Sort of Homecoming”,  da cui prese origine,  ma come lento acustico, nettamente inferiore a “The Drowing Man” del disco precedente.  Inoltre  la canzone, contrariamente a “Bad” si prolunga  inutilmente (oltre 6 minuti),  e questo fece dire a qualche critico: “Qui gli U2 hanno peccato di  autoindulgenza”.  Condivido in pieno.  Il testo è,  di nuovo,  buttato giù lì.  Sembra  Elvis che delira e alla fine chiede a qualcuno di raccoglierlo dal pavimento.  Si poteva scrivere un capolavoro parlando dell’Elvis grasso e  disperato degli ultimi anni. Non si può sprecare una canzone così con un testo così mediocre.

“MLK” è un lento all’organo. Magnifico. Dedicato a Martin Luther King, da cui il titolo che è l’acronimo del suo nome.  È un testo semplice, ma geniale.  Sembrano le parole che furono dette davanti alla sua salma nel 68.  “Riposa in pace e che i tuoi sogni di fine di ogni discriminazione si realizzino”.  Bisognava aggiungere una strofa in più: ancora un’altra canzone che doveva essere perfezionata.  Musicalmente, un eccellente finale lento, anche se come ho già detto,  avrei preferito  la title-track.

Follia pura non aggiungere al disco la splendida “Love Comes Tumbling”, che venne pubblicata prima come B-side e poi dentro “Wide Awake America”.

Ancora più triste il fatto che, durante le sessions, gli U2 scrissero la bellissima “Heartland”, ma per banale mancanza di tempo, non la rifinirono. Non  venne pubblicata neppure su “Joshua”, ma dovette aspettare “Rattle and Hum” per vedere la luce. Da non credere.

Gli U2 si sarebbero potuti prendere più tempo, e pubblicare l’album sei mesi dopo, ma avevano stabilito il tour con mesi in anticipo – secondo l’infame strategia di marketing che impone di capitalizzare il successo e dice che dopo il primo grande successo commerciale  bisogna subito pubblicare il seguito, “perché la gente dimentica in fretta”.  E allora, invece di pubblicarlo nel 1985, lo fecero uscire subito, sotto pressione e senza vera convinzione. Si arrivò ad uno scontro tra la produzione e i quattro che volevano più tempo per completare le cose a dovere. Ma non ci fu nulla da fare e nelle ultime due settimane prima della scadenza, i quattro lavorarono 18 ore al giorno.

Inutile scandalizzarsi: non è stato il primo e non è stato l’ultimo grande disco abortito per motivi venali.  

Detto in parole molto semplici: un capolavoro mancato che non  raggiunge “War” come numero di grandi canzoni  (“War” aveva 7 capolavori su 10 pezzi), e non raggiunge “Joshua” quanto a cura, e soprattutto quanto a testi – benché, come creatività musicale,  sia (mediamente) superiore all’ “Albero”.
È un 4.5, che non posso arrotondare a 5.   

Se ci fossero state “Love Comes Tumbling” e “Heartland”, e se ci fosse stato più tempo per curare tutto come si deve, sarebbe stato un altro paio di maniche.

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