Quando Dave Rubinson lo vide sfrecciare in pigiama sulla moto diretto a San Francisco per il Natale 1968 si mise le mani nei capelli. Del resto Dave era il produttore dei Moby Grape, che avevano sfondato l'anno prima con l'abum dei cinque singoli, e la Columbia si fidava di lui.

 Adesso magari malediva il momento in cui aveva promesso a Skip di fargli incidere un disco solista. Forse non era proprio la cosa giusta da concedere ad uno appena dimesso dal Bellevue Hospital, dove era stato internato con la diagnosi di schizofrenia dopo aver aggredito con un'ascia i suoi compagni del gruppo. Eppure Alexander "Skip" Spence era stato, per questioni di pura fisiognomica, il batterista (lui che invece era un chitarrista) nei primi due album dei Jefferson Airplane nonché lo spirito guida di gemme come "Omaha" e "Indifference" nell'omonimo dei Moby Grape.

 Ma guardatelo in copertina: metà del volto nascosto nell'oscurità e l'altra alla luce, e la parte visibile mette a disagio per quel ghigno indefinibile. Aveva detto a Rubinson "...voglio andare a Nashville e fare un disco da solo". Ci arriva il 15 dicembre e il giorno dopo incide con pochi strumenti un pugno di canzoni che rappresentano un viaggio (oar = rematore) visionario attraverso la  nebbia di una mente umana. Voci filtrate, accordi liquidi di chitarre, percussioni inquietanti, bassi corposi.

"Books of Moses" è un giro di chitarra blues dilaniata dal picchiare del martello sulle tavole della legge, tuoni e scrosci di pioggia si accaniscono su questa piccola figura scura piegata su se stessa mentre attraversa la strada cantando un dolore aspro che non possiamo comprendere. Il disordine della voce sommessa serpeggia nei nove minuti di "Grey/Afro" strutturata sul drumming tribale e la ritmica del  basso che traccia una nenia orientale. E' difficile starti dietro Skip, a volte esasperi ma riesci comunque ad ammaliare. Metti addosso tensione ma poi la stemperi con melodie come "Little Hands", che è un capolavoro folksy da ascoltare seduti attorno al fuoco che tiene lontani i coyote nella notte stellata. Certo che rimani sempre inquietante, anche quando fingi di essere dolce come in "War In Peace", dove ci ipnotizzi con il falsetto lungo una ballata chitarra-basso -batteria, magari per poi sorprenderci a martellate approfittando del nostro stato d'incoscienza. Angeli con  baffoni alla David Crosby volteggiano come sinistri messaggeri sulla nostra testa mentre l'assolo della solista ci fa vedere il lato oscuro e confuso della stagione dei fiori, riprendendo minacciosamente il refrain di "Sunshine of Your Love " dei Cream.

 Il country deciso di "Cripple Creek" o di "Broken Heart" è una ferita che porti dentro mentre ti consumi in fretta nell'esplorare orridi abissi che invece poi si dissolvono in prati verdi da cui raccogliere fiori da portare a "Diana". Una canzone d'amore? Piuttosto un rantolo che rimbalza come un'eco lungo crepacci immaginari creati dall'intreccio delle chitarre acustiche ed elettriche.

 E come sempre le tue canzoni sono come un perenne deambulare ad occhi semichiusi, barcollando e strascicando i piedi nella polvere che circonda la città dei fantasmi leggendari che hanno fatto un solo ma mitico disco. I fantasmi di Dino Valenti, di Mayo Thompson, di Bruce Palmer.

 E il tuo, Skip.

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