La voce di “Skip” mi ricorda quella di Jimi Hendrix. Questi non si definiva un grande cantante, anzi, odiava la propria voce. Riguardo a Spence, non so quanto gli importasse avere una grande voce. Sta di fatto che con quella sua ugola, con quei suoi falsetti molto enfatizzati, su un appoggio baritonale, sapeva come emozionare, sapeva come tirar fuori quanto di più profondo, eppur semplice, l’anima avesse bisogno di liberare.
Nato come batterista, diviso tra Stati Uniti e Canada, la sua prima incisione di gruppo avviene nel 1966: si tratta dell’album di debutto dei Jefferson Airplane, che li dovrebbe far, letteralmente, “decollare” (“take off”). Viene licenziato dai suoi compagni per un viaggio in Messico che non aveva annunciato. Che buffo, e alquanto tragico, modo di uscire da una situazione comunitaria!?
A questo punto, Spence prende in considerazione l’idea di entrare nei Buffalo Springfield di Neil Young e Stephen Stills, ma ripara fondando i Moby Grape, una band che avrebbe creato, partendo da una base psichedelica, un amalgama di blues, folk/country e jazz, unico per il periodo ma poco celebrato.
In questo contesto, passa dalla batteria alla chitarra ritmica, ma la prima incarnazione della band – Skip Spence (voce e chitarra ritmica), Peter Lewis (voce e chitarra ritmica), Jerry Miller (voce e chitarra solista), Bob Mosley (voce e basso), Don Stevenson (voce, batteria) – ha vita breve (1966–1968) perché, durante le registrazioni per il secondo album, “Wow”, Spence, in preda a un delirio lisergico, credendo di essere l’Anticristo, cerca di sfondare la porta della stanza d’albergo di Miller con un’ascia (Jack Nicholson/Torrence, levati!) con lo scopo di far fuori Stevenson per salvarlo da sé stesso (secondo le dichiarazioni di Lewis). Skip viene prima incarcerato, poi internato in un ospedale psichiatrico, dove lo imbottiscono di Thorazine, in seguito alla diagnosi di schizofrenia.
Dopo sei mesi viene rilasciato, e, con diverse canzoni nel cantiere della sua mente, si presenta ai Columbia Studios di Nashville, su consiglio del produttore David Rubinson, per registrare l’unico tassello della sua “carriera” solistica, una delle più fulgide gemme del folk americano, iniettato di psichedelia, “Oar” (“remo”).
L’album, registrato nel dicembre ’68, uscito nel ’69, consta di dodici tracce, accumunate, in minore o maggiore dose, da un’atmosfera formalmente asettica, apparentemente priva di slancio, ma nella quale, in realtà, sta la grandezza e la profondità del modo di comporre di Spence.
Come una sorta di Syd Barrett d’oltreoceano, a lui contemporaneo, perciò senza alcun condizionamento reciproco, Skip vuota il sacco, in maniera naif, cantando di sé, a volte anche allegoricamente, lambendo (o penetrando) il nonsense.
Registrato a partire dal maggio ’68, pubblicato nel gennaio del decennio nuovo, il primo lavoro solistico di Barrett, “The Madcap Laughs” risulta essere il gemello britannico di “Oar”, e condivide con il suo predecessore (di poco!) un’attitudine annoiata, ma pregnante, una cadenza e un respiro sommessi, che però a volte subiscono delle impennate, secondo una vena schizofrenica che si addice alle personalità complicate, e co-implicanti, degli artisti.
Atmosfera circense, con dei bambini come protagonisti, in “Little Hands”; sinistra evocazione coheniana, “Cripple Creek”, su uno storpio che abbandona il suo corpo, e, una volta raggiunto da un angelo, si rende conto di essere solo, che la sua amata non c’è ad attenderlo in cielo; “Weighted Down (The Prison Song)”, forse il miglior pezzo di Spence, proto-slowcore, sull’essere soldato e avere un peso addosso, tema ricorrente nell’album, e sull’essere tradito; “War in Peace”, altro pezzo a confrontarsi con il tema della morte; la lunga “Grey/Afro”, sostenuta da una ritmica assurda, da un basso e da una batteria che guidano il canto di Skip in maniera perfetta, chiudendo il cerchio di un album che non ha eguali nella storia della musica.
Cosa rende “Oar” un assoluto capolavoro?
- Spence suona tutti gli strumenti;
- Riesce a unire – in un’organica miscela freak – psichedelia, folk, country, funk, rock, e soprattutto blues;
- È l’opera di una vita, che condensa il profondo travaglio interiore di un artista, in maniera assolutamente genuina.
Irraggiungibile, nonostante l’omonimo di Barrett, di poco successivo a “The Madcap Laughs”, gli si avvicini, “Oar” è l’opera di un genio che, probabilmente, non sapeva di esserlo, e di un musicista che aveva poco da spartire con molti dei suoi contemporanei, in quanto a versatilità e a estro strumentale. Il Brian Jones dei Moby Grape, artista di culto, tributato dai suoi eredi (tra cui Robert Plant, Mark Lanegan, Mudhoney, Robyn Hitchcock, Tom Waits e Beck) con l’album “More Oar” (datato 1999, anno della sua morte), Alexander Spence va ricordato per il suo involontario e, per questo, indispensabile contributo al cantautorato freak di lisergica memoria, che si sarebbe sviluppato negli anni ’80 con artisti come il sopracitato Robyn Hitchcock.
Voto: 10/10
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