Epoca musicale complicata quella in cui stiamo vivendo, s'inventa poco - forse perché c'è rimasto poco da inventare -  e la tendenza o la convenienza di guardarsi indietro, piuttosto che gettare un ponte sul futuro, è diventato ormai il tratto distintivo di quasi tutte le band contemporanee. Ironico in tal senso il titolo del secondo album dei canadesi Black Mountain, che a fine disco suona più beffardo che altro. "Back To The Future" sarebbe stata una premonizione più calzante.

Si alternano in ordine sparso, Deep Purple, King Crimson, Grateful Dead, David Bowie, Neil Young, Black Sabbath, Quicksilver Messenger Service,  Led Zeppelin, Doors, Siouxsie, Brian Auger, Jefferson Airplane. No, non è uno scherzo e neppure qualche diabolico supporto futurista in grado di contenere cotanta mercanzia. Sono semplicemente le stelle strappate al cielo dal quintetto canadese per confezionare un album talmente complesso e poliedrico che è impossibile non farsi trasportare a ritroso nel tempo lungo i cinquantasette minuti di quest'opera che, è proprio il caso di dirlo, impegnano a dismisura i nostri sensi.

Trovo oltremodo noioso e vieppiù stucchevole sviscerare l'album brano dopo brano col rischio magari di fare un torto alle romantiche aperture post-psichediche di "Angels", anziché all'incalzante hard rock della traccia d'apertura "Stormy High", piuttosto che alla catacombale "Queen Will Plays" ove il tenebroso e visionario vibrato della Webber rievoca il trucco pesante in contrasto col bianco volto ceruleo dei gruppi dark d'inizio anni ottanta. E come dimenticare la convulsa epicità di "Tyrants" che alterna momenti introspettivi a frenetici e martellanti passi rock, citando apertamente i padri dell'hard quando erano ancora nel limbo dell'innocenza.  "Wucan" per contro con le sue tastiere tanto vintage quanto cosmiche ci prende per mano e ci accompagna in una cadenzata ancorché oscura passeggiata spaziale. Vogliamo fare un torto alla traccia più smaccatamente ambiziosa e debordante del lotto? Il trip psichedelico di "Bright Lights": quasi diciassette minuti di spessa coltre fumosa circuiscono l'avventore fra deflagrazioni stoner e allucinate distensioni serafiche, cui fa seguito una lunga coda strumentale grondante acido lisergico, interrotta solo nel finale dalle urla lancinanti di Stephen McBean. L'epitaffio di un album destinato a pesare (quanto lo dirà il tempo) nel futuro è affidato alla candida voce della Webber per sciogliere la tensione nella chiesastica chiusura proto-barocca di "Night Walks".

Un rollercoaster musicale da apparire più una compilation anziché il lavoro di una sola band con la concreta alea di scimmiottare le fonti e che solo un grande gruppo - come i Black Mountain dimostrano d'essere - può cercare di tenere a freno senza cadere nel retorico. Un mare d'idee, un oceano di citazioni, un mondo sonoro da custodire gelosamente. Un lavoro solido, ambizioso e dalle mille sfaccettature.

Questi sono i Black Mountain, alfieri della neo-psichedelia del ventunesimo secolo. Applausi a scena aperta.

 

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