Avevo dunque avviato il mio giradischi con sopra questo ellepì, prestatomi da un amico che affidandome aveva pronunciato la seguente frase: "Tu che parli sempre di Deep Purple e Led Zeppelin... sentiti questi!".

Intanto che l'etichetta Vertigo multi spiralata era lì che aveva cominciato a girare provocandomi un sottile effetto ipnotico, la puntina prese a calare sul disco e, poco dopo il caratteristico e familiare piccolo tonfo d'ingresso al solco nel vinile, partì di botto un accordo ciclopico eseguito da un paio di chitarre all'unisono, distortissime, ronzanti ma anche ripiene di toni cupi, sostenuto in tempo lentissimo da un conturbante giro di basso e da una strascicata, arrancante batteria. Dopo un paio di cambi tonali ecco arrivare in assolvenza, facendosi strada nel rimbombo generale, il suono delle sirene d'allarme britanniche della Seconda Guerra Mondiale, sinistro preannuncio all'arrivo dei bombardieri tedeschi su Londra (o piuttosto Birmingham, la città dei Sabbath?): un effetto devastante alle orecchie ed all'immaginazione di me pischello, che sino a quel momento avevo in conto "In A Gadda Da Vida" degli Iron Butterfly e "Immigrant Song" degli Zeppelin come massima espressione di suono violento e minaccioso.

D'incanto però ecco il brano fare uno sbrigativo stop lasciando il semplice charleston a tenere il tempo, da solo, senza paura, confortato solamente da un paio di risoluti stacchi strumentali. A quel punto era già passato più di un minuto di musica e finalmente una voce sgangherata e beffarda, terribilmente scomposta ed efficace, si mette a inveire contro generali, eserciti, carte topografiche disseminate di modellini di carrarmati, aerei e soldati. Più in là, mentre che il cantante riprende fiato tra un'invettiva e l'altra, il gruppo si diverte sciorinando un riff dopo l'altro, col batterista Bill Ward che alla maniera progressiva prende a riempire tutte le sincopi con rullate creative e anarcoidi. Ora le due chitarre, che fin lì avevano lavorato in parallelo una a destra e l'altra a sinistra a scopo di un unico, ricco muro d'accompagnamento, prendono a diversificarsi: l'assolo di destra è contemporaneo e diverso da quello di sinistra. Ma ecco che invece convergono di nuovo, in una frase musicale unisona e sonorissima, poi in un arpeggio condito con imperiosi stacchi in bicordo... Ultima e stravagante trovata del brano, un'accelerazione del nastro master che fa scivolare la canzone in pochi secondi a velocità tripla e tonalità crescente prima del chioccio, assurdo stop finale.

Come s'intitolano ‘sti otto minuti di opprressiva potenza? "Maiali di guerra"... minchia! Che botta! Tanto che mi è ancora molto chiaro questo ricordo del personale battesimo coi Sabbath. Da quei giorni la mia storia di appassionato di musica ha rivelato gusti assai moderatamente metallari (più in là, per dire, di Alter Bridge e Saxon non riesco ad andare... entità fondamentali come Iron Maiden e Metallica non godono per certo del mio umile gradimento per non parlare di tutta la scena estrema, Grind e Nu e Stoner e via dicendo, che non mi interessa in toto), però la sventola giovanile portatami da questo quartetto inglese fu formativa ed utile come poche altre. Mi ha aiutato ad essere meno snob, a ricercare e qualche volta trovare qualità e ammirazione nei confronti di numeri di rock duro e bombardone.

A questo secondo album dei Sabbath è stato imposto dalla casa discografica il nome Paranoid in grazia del notevole potenziale del singolo da esso estratto; il gruppo aveva altri progetti per il titolo (lo si intuisce dalla copertina, molto "War Pigs"), ma anche logica fame di successo e così si adeguò. "Paranoid" la canzone venne fuori al volo, a disco pressoché completato... una jam session di mezz'ora e il pezzo era fatto, un'altra mezz'ora e il bassista Geezer Butler ne aveva scritto il testo, così narrano cronache ed interviste ai protagonisti. Una storia del tutto simile a quella, più o meno contemporanea, di "Black Night" dei Deep Purple, che però fu tenuta fuori dall'album "...In Rock" e destinata a farsi strada solo come singolo.

Che dire ancora di questi due minuti e mezzo di unico ed inimitabile paradigma di heavy metal compatto, accessibile, sinistro e commerciale? Se ne sta lì, perfetto (per chi ha stima di tali suoni e tali exploit di semplicità ed efficacia), con la cantilena oscena di Ozzy Osbourne biascicata sopra lo sbigottente stoppato di chitarra di Toni Iommi che si fonde completamente col basso sordo di Butler. E' stato e sempre sarà ricordato come il miglior biglietto da visita possibile, compatto essenziale e ficcante, della musica metallara.

Quando si va a un concerto dei Black Sabbath ancor oggi è impossibile non beccarsi "Iron Man", altra canzone piena di gloria contenuta in questo lavoro. Micidiale l'efficacia, immaginifica e pionieristica, del tonitruante glissato iniziale ottenuto da Iommi tirando la leva del vibrato e liberandola poi lentamente fino alla posizione di riposo, intanto che la voce di Ozzy trasfigurata e distorta presenta la storia fantascientifica dell'Uomo di Ferro, che torna dal futuro per annunciare l'apocalisse... Ma non glielo permettono e allora se ne rimane compiaciuto ad osservare il suo compiersi. Vale la pena ricordare che tutte queste liriche politico/pacifiste oppure fantascientifiche (oltre a "War Pigs" vi sono "Electric Funeral" che parla di disastri nucleari e "Hand Of Doom" degli orrori del Vietnam e dei suoi reduci, spesso strafatti di eroina per riuscire a convivere col ricordo delle orribili carneficine subite e soprattutto provocate), erano dovute più che altro alla penna del bassista piuttosto che del frontman del gruppo, quest'ultimo d'altronde adattissimo anzi perfetto per interpretarle.

Un'altra canzone da citare è indubbiamente "Planet Caravan", specie di viaggio interstellare very psychedelic in stile Kubrick resa in maniera inquietante dalla voce unica ed impagabile di Osborne, filtrata e fantasmizzata attraverso un amplificatore Leslie per organo. L'episodio è l'unico privo di fragore ed energia fra gli otto che compongono l'album ma non è certo fruibile con tranquillità, possedendo la sua bella dose ansiogena.

Altre due righe ancora su "Electric Funeral", un titolo e un programma dato che l'andamento del pezzo è autenticamente da funerale, dominato dal celebre e prolifico riffone di Iommi e Butler sul quale il ghigno senza fine del giovane Ozzy sguazza senza ritegno.

Come tutte le entità che hanno fatto autenticamente storia, i Black Sabbath sono sortiti da un perfetto incontro di musicisti e di personalità: la capacità e profondità di riffing e l'acidità solista di Iommi addizionate al plumbeo basso di Geezer ed alla sua vena lirica lugubre e pessimistica, moltiplicati per la creativa ed anarchica batteria del pazzoide Ward ed il tutto elevato a potenza dalla voce ossianica e disturbata di Ozzy... il risultato è che al lato oscuro del rock ci hanno pensato (quasi) per primi, e sicuramente meglio di tutti, questi Black Sabbath di Birmingham, Inghilterra.

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