"Highway 61 Revisited" era già leggenda, e il nome di Bob Dylan era una sicurezza. Non più solo cantautore sermoneggiante, ma anche autore di brani rock, folk, jazz e blues. In pratica, un Signor Musicista.
"Like a rolling stone" aveva già sbriciolato un record che durava da ormai quarant'anni: far durare una canzone più di cinque minuti ("Satisfaction" degli Stones durava meno di 4 minuti), ma si era attirato le ire dei numerosi fans che lo vedevano allontanarsi da Joan Baez e dalla canzone di protesta. Indubbiamente, col senno di poi, il Dylan rock è sicuramente meno lezioso e monotono del pur ottimo Dylan sermoneggiante.
Nel 1966 Dylan dà alle stampe "Blonde on blonde", e ancora frantuma un altro record. "Blonde on blonde" è il primo LP doppio della storia della musica, praticamente, all'epoca, pareva un'opera quasi monumentale. E in effetti, è un opera monumentale. Jazz, folk, blues, soul, rock, pop: a Dylan riesce il miracolo di conciliare più generi musicali in unico genere, forse indefinibile, o forse talmente geniale da risultare innovativo ancora oggi, a distanza di quarant'anni.
Doppio LP inciso in maniera alquanto bislacca (un pò come succederà coi Beatles con "Abbey Road"): Dylan prova i brani insieme ad Al Kooper - maestro del sonoro e autore di tutte le ottime session registrate totalmente a Nashville - mentre i musicisti della band ingannano il tempo sparlottando fra loro o giocando a carte. Dylan prove le canzoni due o tre volte in un giorno, e poi le registra. Condizione disagevole, non c'è che dire, eppure, l'arte e il talento di Dylan sembrano non subire nessun impedimento.
Giovane e un pò incosciente, Dylan non ci mette nulla a registrare una serie di brani che passeranno quasi subito alla storia: dal quasi folk di "Just like a woman" all'andamento traballante di "Rainy day women nos 12 & 15", per arrivare alla bellissima "One of us must know", cantata eccellentemente da Dylan ma suonato, ancor più eccellentemente, dalla chitarra a sei corde di Robbie Robertson e ad un celestiale organo d'accompagnamento, prima di sfociare nel 'drogato' ritornello.
Naturalmente, il disco non è tutto qui. Ci sono almeno altre sei-sette brani che meritano una menzione: "Vision of Johanna", "Temporary like Achilles", "4time around", la deliziosa "I want you" (colorata, allegra, scoppiettante) per finire con la lunghissima "Sad eyed lady of the lowlands", 11 minuti che parlano d'amore, come mai nessuno era riuscito a fare. Fra visioni mistiche, allegrie colorate, specchi di Lewis Carroll, desolazione, amore, polvere, pioggia, sole: c'è tutto in "Blonde on blonde", c'è tutta l'arte di Dylan, c'è mezza storia musicale americana di inizio anni Sessanta, ci sono rimandi (doverosi e chiarissimi) ai Byrds e a Joan Baez, ci sono tutti gli strumenti possibili ed immaginabili, c'è un rock che sembra trasformarsi in qualcosa di astrale, c'è un modo, che definire geniale sarebbe poco, di come concepire la musica adattandola a proprio piacimento.
Ma c'è soprattutto la voglia di riscatto: l'anno prima dell'incisione di "Blonde on blonde" (dunque il 1965) Dylan venne assurdamente fischiato al Festival Folk di Newport colpevole per aver cominciato a suonare brani prettamente elettrici e rock (il pubblico si aspettava qualcosa come "The times they are a changin"), e, per protesta, a Dylan viene lanciata sul palco qualsiasi cosa. Costretto a ritirarsi dal palco, comprenderà che tutto il rispetto a cui l'avevano giustamente abituato i fans era andato perso.
Ed è da qui, da questa consapevolezza, che nasce il riscatto: il riscatto di fare solo e soltanto quello che più gli pareva, fregandosene di tutto e tutti. "Blonde on blonde" è un cult assoluto della storia della musica, un album fondamentale per capire l'evoluzione del cantautorato made in Usa, e, più in generale, un album storico che, in una eventuale paradossale classifica musicale, non può che apparire nelle prime dieci posizioni. Prima o dopo l'altrettanto epocale "Highway 61 Revisited"? Quello lo lascio decidere a voi.
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