Deve essere assai dura la vita dei dylanologi, visitati come sono, notte e giorno, ora da questo, ora da quel Dylan. Che la lista è lunghissima e il ragazzetto ricciuto, il pellegrino, il profeta, l'hipster definitivo, il cristiano rinato, il cercatore d'oro son solo i primi che mi vengono in mente.

Oh. è affollato da quelle parti, tutto un intrico d'ombre e proiezioni fantasmatiche.

Che alla schizofrenia del nostro va aggiunta la schizofrenia dei fans, ognuno dei quali affezionato a una figurina diversa ottenuta mischiando, in dosi variabili, pezzettini della loro labile psiche a ritagli dylaniani affestellati a caso.

Ma io sono un fan tutto sommato recente e l’unica ombra che bussa alla mia porta ha la faccia della copertina di “Blonde on blonde”

Non che non arrivino messaggi anche da altri Dylan “minori”, arrivano eccome. Con parsimonia però, e ci mancherebbe altro, che questa è roba che va gustata, masticata, sputata. E masticata e sputata ancora.

E comunque anche se frequento soprattutto il favoloso un due tre della svolta elettrica, ogni tanto parto per qualche gitarella alla cavolo, tipo quelle dove arrivi al paesino vattelapesca e la barista che ti versa il frizzantino è l'ennesima dea che non ti aspettavi.

Ecco allora che il pargolo folk mi sussurra qualcosa all'orecchio e l'ebreo zingaro devoto al tuono rotolante improvvisa un numero da circo. Oppure mi appare addirittura l'ultima versione (l'ultima?), quel signore un po' male in arnese, anche se pur sempre un dio, la cui voce passa da un microfono di cocci di bottiglia e vetri infranti...

Che poi, in più, ci son gite anche extramusicali, favolosi castelli di parole, che il nostro con le parole se la cavava assai bene. Son vecchie interviste o poesiole che non legge più nessuno,

Ad esempio, chi era quel fanciullo che si inginocchiava su un campo ferroviario e strappava con furia selvaggia i ciuffi d'erba... quel fanciullo in attesa di udire il suono dei vagoni delle miniere, coi binari che cominciavano a tremare mentre lui si mordeva le labbra...quel fanciullo che diceva di accettare la bellezza solo se brutta, perché le ferrovie,col loro color di fogna e il loro puzzo di fuliggine e polvere, non erano belle manco per niente?

Oh si, chi era? Oh era lo stesso che un giorno, ubriaco e senza difese, colse un altro tipo di bellezza sentendo cantare una ragazza di nome Joan. E quella bellezza era una specie di bacchetta magica,

Ecco di quel fanciullo parla una poesia del 64 (periodo riportando tutto a casa o appena prima) e se siete di quelli che pensano che Dylan non c'entri nulla con la letteratura vi consiglio caldamente di leggerla.

In ogni caso io mi son fatto un'idea...e cioè che la bellezza brutta e la bellezza bella, il tenerle insieme voglio dire, sia il vero colpo di genio del nostro, nonchè una delle chiavi per capirlo.

Il passaggio dal brutto al bello è il passaggio dal realismo al delirio, perché per dir la bellezza non ci sono parole, se non dei significanti impazziti che si rincorrono nel vano tentativo di abbracciarla. In fondo molti artisti son come quegli autistici che sparano parole a caso provando a ricomporre una mappa del tesoro stracciata in mille pezzi.

E comunque “Sad eyed lady of the lowlands”, uno dei brani capolavoro di “Blonde on blonde”, è una infinita serenata dove si rincorrono proprio quei significanti impazziti che dicevamo. Esercizio non così vano in fondo, visto che basta sospendere il raziocinio e agganciare il tesoro nascosto alla classicità folk/blues per fa si che le due bellezze insieme creino qualcosa di assolutamente nuovo, sia musicalmente (purezza più elettrificazione) sia dal punto di vista linguistico (archetipi della strada più delirio).

E se questo vi par poco...

E comunque non si tratta solo della bellezza, ma anche, ovvietà psichedelica, dello svanire tra gli anelli di fumo della propria mente. Con, inoltre, una decuplicata capacità di raccontare l’incubo, perché la bellezza da alla parola la potenza e la forza per dirigersi verso il suo opposto. Valga per tutte l’’eloquenza di certi testi interminabili tipo “Desolation row” dove si ha quasi l’impressione di poter affrontare ad armi pari l’orrore del mondo.

Poi forse il delirio non è l'unico modo, forse è solo uno dei possibili modi. A me sembra però che, per un tizio che aveva sempre sofferto di verbosità oracolare e di piglio profetico, il delirio fosse una strada quasi obbligata

Che poi un’altra cosa fantastica è che a proporre l'inaudito fosse un moccioso innamorato del passato.Che un'altro favoloso esempio di mirabile prosa dylaniana, è quel pezzo di "Chronicles" dove il nostro narra del suo incontro con la musica di Robert Johnson. E chi si li dimentica più i capelli che gli si rizzano in testa, i suoni delle chitarre come pugnalate, gli spettri che entrano nella stanza. Cè qualche critico musicale che sia riuscito a parlare in questo modo di Robert Johnson? No, non direi.

Insomma Dylan era un genio.

Ma ai tempi della mia brufolosa e leggendaria giovinezza Dylan non era nessuno. Nessuno, o, al massimo, solo un noioso signore che bofonchiava versi astrusi.

E poi, uno dei nostri guru di allora, il caustico Luigino Cannuccia, non parlava forse di impressionante mancanza di talento? Ah, certo...

Ma allora non avevamo ancora ascoltato il primo balbettio Velvet con il fantasma dello zio Bob che sussurrava amabilmente il da farsi al nostro Luigino...

Non sapevamo che la bionda e tenebrosa miss teutonia, valchiria delle valchirie, prima di incidere la canzoncina dello specchio, si fosse lasciata andare a una vera e proprio crisi isterica berciando "io voglio cantare come Bob Daylaaaan".

Ah signori, il motivo di quella voce spenta in "I'll be your mirror" è che la signorina Nico (che dio l'abbia in gloria) non riusciva a cantare come lo zio Bob e, siccome quella voce spenta è una delle cose più magiche della musica tutta, grazie zio anche per questo...

Dei tre velvet l'unico a fottersene di Dylan era il John che, avendo frequentato una scuola alchemica di esoterismo urbano, era al di sopra di tutto.

Ma, tornando a noi, noi di dylan ce ne fottevamo... per noi i poeti erano Morrison, Reed, Hammill...non lui...

Anche se...

Anche se qualcuno che non la pensava così lo incontravamo ogni tanto... e si trattava sempre di personaggini coi controcazzi, l'Antico ad esempio...

Ecco si, cominciamo dall'Antico, che l'Antico aveva stile...

Ma cos’è lo stile? Quella cosa a cui ci si appiglia quando tutto va a fondo o una maschera più figa e quindi più credibile delle altre? Una costruzione intelletuale consapevole o la riva a cui si approda per attitudine, bisogno, voglia di essere sè stessi?

Non lo so, non lo davvero...So però di aver sempre amato quelle figure che lo stile se lo costruivano al di fuori del già visto o del già sentito (anche del già visto e già sentito buono, per dire). E quelle figure finivamo ai miei occhi per sembrare personaggi da film...

Gente così l'avrete conosciuta anche voi, immagino.

Ecco l'Antico era uno che di notte faceva i duecento nelle stradine di campagna, girava con uno strano pellicciotto e non usava mai la parola no (“ho sentito troppi no” diceva)...

Uno che aveva sette o otto anni più di noi...

Un giorno ce lo ritrovammo in una festicciola fuori città: Fuori fuorissimo pure lui, fermava tutte le ragazze dicendo loro "Ciao, sei di Imola?" per poi mettersi a ridere e sgattaiolare altrove...

A un certo punto venne verso di noi e noi stavamo parlando di musica, pensate che sfigati eravamo...sempre ridendo ci disse "di che cazzo parlate, a me piace Dylan"...

Eravamo di fronte a un mito e anche se raggelati e impietriti venne fuori la nostra sicumera da sfigati...

"Dylan è un morto che cammina"

"Mi sa che siete solo degli stronzetti" e ci lasciò li nella nostra merda post adolescenziale.

Che poi l’Antico era anche quello dei silenzi terapeutici e, in certi periodi, si chiudeva in un mutismo quasi assoluto. Ho detto quasi, perché magari c’era l’eccezione delle fanciulle di sogno e delle persone piene di poesia. “Che la bellezza è un fatto e la poesia pure. Altri fatti non ci sono.” Ah, non per niente lo chiamavano l’antico.

Poi c’è Andrea, uno che da bambino viveva negli States coi nonni e che quindi parlava perfettamente l’inglese.

Era un tipo formidabile Andrea, immaginate un volto alla Zanardi (quello di Pazienza), virato però verso l’intensità romantica e non verso la stronzaggine...un volto da cospiratore, pieno di disgusto verso il presente,

Immaginate un’ombrosa eloquenza priva però di risentimento...immaginate qualcosa di simile a una profondità mai esibita...

E una carnagione chiarissima da fantasma...

Immaginate tutto questo e avrete Andrea.

Ci si ubriacava io e lui, ci si ubriacava e si chiacchierava tanto, E una notte, dopo due bottiglie di porto, mise sul piatto “Blonde on blonde” e cominciò a tradurre, parola per parola.

“Ma guarda che a me, al massimo , piace Hurricane...”

“Sta zitto e ascolta, minchione...”

Ecco avete presente quando vi capita di rivedere un luogo che vi era caro da bambino, avete presente quella sensazione di grande che si rivela essere clamorosamente piccolo? Ecco ogni volta che mi è capitato di leggere delle traduzioni di Dylan la sensazione è sempre stata quella.

Dove erano finite l’eloquenza e la magia di quella notte? Nel mal di testa del giorno successivo?

Ma forse il Dylan di quella notte non era che uno dei molti Dylan possibili...il Dylan/Andrea o l’Andrea/Dylan, fate voi...E “Blonde on blonde” era solo una specie di sottofondo, che l’essenziale era l’eloquenza sballata raddoppiata dalla subdola dolcezza del porto...

“Blonde on blonde”...Che mi fregava allora di “Blonde on blonde”,,,io ero un fanciullino wave!!!

Eppure già in quella notte qualcosa scattò, anche se era solo una faccenda di parole,,,il fil di fumo del trenino delle parole, non ancora lo sferragliamento, il favoloso sferragliamento dei vagoni in corsa.

Ah si, per lo sferragliamento c’è voluto del tempo..tanto tempo.

“Blonde on blonde”.

Ultimo di una favolosa trilogia, “Blonde on blonde”, non ha la potenza della strada 61, nè il magico stare in mezzo tra un prima e un dopo di quella volta che Dylan riportò tutto a casa.

Ah no, “Blonde on blonde” è sornione, a tratti quasi rilassato, con organini atmosferici e armonica metafisica.

E dentro ci sta di tutto. incubi blues, brandelli di canzone d’amore, numeri da orchestrina psichedelica, acquerelli naif alla “Norwegian wood”, viaggi senza punti di riferimento e la serenata infinita che vi ho detto.

E anche qualche momento rock piuttosto acceso.

E son tante le figurine che appaiono in filigrana, tante, tante davvero, Adesso mi vengono in mente Monna lisa e il suo blues dell’autostrada e l’Achille affamato come un uomo alla catena, ma, potremmo star qui ore a pescar meraviglie da quel pozzo infinito.

Il pozzo...

Il pozzo di quella voce grattugiata e ferrosa, adattissima al delirio...una voce che, per tornare all’inizio, è bella perché è brutta e brutta perchè è bella.

Oh, ci vuole una voce come quella per cantare parole che sono il paradigma stesso dell’imperfezione e per stare al passo con una lingua sporca e sublime e lontana/lontanissima dal senso della misura,.

Dei tre album della svolta elettrica, “Blonde on blonde” non è necessariamente il più bello, ma è quello che chiude il cerchio, ed è quello più visionario...Oh, lo so, visionario è un termine che magari ha stufato, ed in effetti non se ne può più...ed è favolosa quella scena di “i’m not there” in cui una carampana sessantenne avvicina il nostro dicendogli appunto “Oh signor Dylan lei è così visionario!!!”

Ma, che posso farci, non mi viene un termine migliore..E, del resto, le visioni di Johanna e la signora delle pianure in che altro modo le definireste?

A parte che cose così prima non si erano mai sentite...

E poi “sad eyed lady...” , oltre ad essere l’approdo di quel fanciullo che improvvisamente scoprì la bellezza, è un capolavoro limite. Lunghissima ed estenuante, sorretta da un appena appena di tremolio psichedelico, sembra non finire mai.

E, infatti, non finisce mai. Che siamo noi, una volte che quelle note d’armonica son finite, siamo noi ad andare avanti.si noi...

noi...

ovvero io, anche se magari a passo ridotto, oppure l’Antico con le sue fanciulle di sogno e i suoi pazzi poetici, o Andrea che quella volta della traduzione mischiò i deliri, il suo e quello di Dylan.

Si siamo noi ad andare avanti, oppure semplicemente rimettiamo il disco da capo.

Che dire poi di “ Stuck inside of mobile with the memphis blues again” con quella sensazione di essere bloccati in un labirinto e sentirsi prigionieri coi diavoli blu sulle spalle? E di quella musica corposa, perfettamente oliata?

Che soddisfazione sentirla all’inizio di “I’m not there” il notevole film di Tod Haynes, dove si ricorrono alcuni ( oh solo alcuni, si) dei tanti Dylan...

Oh è davvero bellissimo sentirla, mentre sullo schermo, nella metafisica del bianco e nero, scorrono mille volti di passanti, profeti, vagabondi...

E rimane ancora bellissimo anche quando improvviso arriva il colore, e arrivano verdi colline...e arriva il treno merci e il bimbetto folk devoto di Woody Guthrie ci salta su...

Il bimbetto folk, ma anche il piccolo imbroglione che, come un perfetto blues/man, inventa la propria personale leggenda.

Ma ogni canzone meriterebbe davvero un discorso a parte.

Citerò solo “I want you” che piace tanto alla mia fidanzata e “4th time around” che ha una specie di perfezione di cristallo ed è quella che, come dicevo sopra, somiglia un pochino a “Norwegian wood”.

Stop...

Anzi no, ancora una cosa. Come è possibile che Dylan sia passato dalle canzoni di denuncia sociale agli anelli di fumo della mente, o, se preferite, da Guthrie a Rimbaud?

Oh certo, vi ho parlato della bellezza brutta e della bellezza bella. Ma credo ci sia di più.

In “I’m not there” il Dylan/Rimbaud illustra le sette semplici regole per vivere alla macchia.

Che poi a noi non ne servone sette...a noi ne basta una, quella che dice: “Quando ti chiedono se ti importa dei problemi del mondo, guarda profondamente negli occhi chi te lo chiede. Non te lo chiederà più”

Infatti, c’è davvero qualcuno che vuole cambiare il mondo? No, non c’è.

L’importante allora è non farsi catturare, restare alla macchia. Come un fuorilegge o un eroe solitario. Sempre che Dylan non vogliate catturarlo voi, ma dubito davvero che possiate riuscirci, visto che non c’è mai riuscito nessuno.

Infine qualcosa su Andrea e sull’Antico, i miei due dylanologi preferiti..Non li vedo da vent’anni, Niente di strano, visto che eran proprio di quei tipi che tendono a fuggirsene via.

Ma, anche se probabilmente non accadrà mai, proprio con loro mi piacerebbe riascoltare “Blonde on blonde”. Per adesso mi limito a dedicargli questo scritto.

E quindi ciao Antico, ciao Andrea...

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