Non mi piace considerare "Reality" l'ultimo album di inediti di David Bowie. Un po' perché non sarebbe la degna conclusione di una carriera straordinaria, e un po' perché quando penso all'ultimo lavoro in studio del Duca mi vengono in mente "Heathen" e "Reality" contemporaneamente. Perché penso che con il primo, Bowie abbia voluto proporre un album degno dei suoi grandi capolavori, e cioè di fare un passo indietro almeno fino a "Scary monster" mentre il secondo sia stato concepito come pretesto per intraprendere un tour mondiale. Infatti "Reality" si rivelò un album da concerto, forse l'album più orecchiabile e di facile presa che egli abbia mai inciso. Certo se pensi che a cantare quelle canzoni sia un mostro sacro come David Bowie viene da storcere un po' il naso, ma se non si conosce la sua opera l'impressione è quella. Mi piacerebbe recensirli tutti e due nello stesso momento, perché li reputo complementari (complice anche la breve distanza trascorsa tra la pubblicazione dei due album) ma mi tocca sceglierne uno. E scelgo "Heathen".

Mi avvicinai a questo album (e successivamente all'artista) quando lo vidi ospire della trasmissione "Quelli che il calcio". Era il 2002. egli eseguì "Cactus" e rimasi folgorato. La canzone la trovai bellissima e quell'artista esercitò su di me un fascino incredibile. Sapevo di avere davanti un grande della musica, ma solo in quel momento lo stavo per conoscere. Successivamente scoprì, con mia delusione, che "Cactus" era una cover dei Pixies. Ma fa niente. La versione del Duca la preferisco di gran lunga. Quando comprai l'album rimasi sempre più affascinato da questo artista. L'opera in sé non era facilissima. Alcune canzoni erano un po' complesse e non di facile lettura. Ma, diamine, che canzoni. In giro non si sentivano quelle liriche e quegli arrangiamenti. Le prime ad arrivarmi furono il primo singolo "Slow burn" che vede la partecipazione di Pete Townshend (The Who) alla chitarra, e che con quel vocalizzo durante il ritornello non può non affascinare. Poi le più leggere "Afraid" e "Everyone says hi". Canzoni forse troppo facili, ma impeccabili. Molto suggestiva "I would be your slave" una preghiera sottoforma di ballata ben strutturata. Poi "A better future" con un ritmo molto incalzante e sicuramente il capolavoro che dà il titolo al disco: "Heathen (the rays)". Una canzone monumentale con un arrangiamento magistrale. Di cover oltre alla già citata "Cactus" troviamo anche una canzone dimenticata di Neil Young "I've been waiting for you" che ha un arrangiamento troppo invadente, e "I took a trip on a Gemini spaceship" una canzone del 1969 di The Legendary Stardust Cowboy, nome che lo ispirò per l'icona Ziggy Stardust. Altro capolavoro dell'album è "Slip away" grande canzone con Bowie nel ruolo del crooner e con un bellissimo pianoforte. La canzone è conosciuta anche col titolo "Uncle Floyd" e doveva essere incisa nell'album previsto per il 200/2001 che si sarebbe dovuto intitolare "Toy". Chiudo con la canzone che apre l'album (stranamente). "Sunday" canzone molto suggestiva, un po' noiosetta finchè non si risolleva negli ultimi 30 secondi, ma che ci fa capire da subito che siamo lontani dai lavori scialbi degli anni '90. Quando si pensa ai capolavori di David Bowie penso sicuramente a quasi tutti gli album degli anni '70 fino ad arrivare a "Scary monster" del 1980.

E poi farei un salto fino a questo "Heathen" che nel 2002, dopo più di 30 anni di carriera fece capire che il Duca aveva ancora ispirazione. Che decisamente sembrò calare l'anno successivo con "Reality" ma come ho già detto, sono due album che andrebbero giudicati contemporaneamente. Uno come il vero album capolavoro, e l'altro percepito per una dimensione live.

Alla prossima...

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