Ancora una volta "Heathen".

Perché ascoltare questo "Heathen", quando alle spalle abbiamo la chioma rossa di Ziggy Stardust, l'Apocalisse di "Diamond Dogs", la pioggia elettronica della pentalogia berlinese e la tavolozza di sangue di "Outside"?
Perché "Heathen" è il mio instancabile disco di Bowie. Attenzione, non sto dicendo che è il migliore: sto dicendo che è assolutamente magnetico, come le calamite trip-hop di "Sunday", brano d'apertura lento e inesorabile, "l'inizio di una fine" con i cori del giorno del giudizio. Certo è ingannevole come inizio, dal momento che è seguito da una "Cactus" (cover dei Pixies) prima acustica poi prepotentemente elettrica, elettronica e corale insieme. Ma lasciamo cadere per un momento le bacchette della batteria e dirigiamoci in una zona più classica per Bowie, quello della maestosa ballata "Slip Away", una "Space Oddity" del futuro dedicata allo spettacolo di Uncle Floyd, sorta di geniale BimBumBam anni '70. Bowie è implacabile, a questi tre capolavori appena descritti ne seguono immediatamente altri due: "Slow Burn", epico rock di rabbia infiammato dalla chitarra di Pete Townshend e dall'efficace liena di basso, ed "Afraid", velocità del suono sorretta da precisissimi contrappunti d'archi.

A parte due cover a mio parere scarse, ovvero "I've Been Waiting For You" di Neil Young, che nulla aggiunge al sound del disco, e la nuovissima e delirante ma fastidiosa "I Took A Trip On A Gemini Spaceship" di Legendary Stardust Cowboy (misconosciuto bluesman anni '60 cui Bowie rubò un pezzo per il cognome del suo Ziggy), tutti gli altri brani del disco riescono a stupirmi e sorprendermi ogni volta. In "I Would Be Your Slave" l'artista torna a sperimentare unendo al suo lento canto da crooner un drumming inconfondibilmente jungle ed un'ansiosa base elettronica di respiri, e in "5:15 The Angels Have Gone" i ritmi si trasformano nei battiti del nostro cuore ansimante mentre cerchiamo di correre nella neve, con improvvise esplosioni di batteria, spruzzate d'archi e cori sintetici.
L'opera si chiude con tre canzoni secondo me assolutamente indispensabili per comprendere che con questo disco Bowie ha voluto concludere dignitosamente una fase della sua discografia: "Everyone Says Hi" è una ballata orchestrale-acustica pop e disimpegnata che riassume e migliora lo stile del precedente "...Hours", "A Better Future" è un angosciante sguardo di protesta rivolto a Dio, cupo e apocalittico, mentre "Heathen (The Rays)" è un cielo di suggestioni magnifico e solenne sia nel testo che nei suoni.

Questo è il mio implacabile, magnetico, instancabile e visionario disco del Duca Bianco, un concept album furioso, circolare e pagano... e per ora è anche l'ultimo del "mio" Bowie.

Da "Heathen (The Rays)"
"Steel on the skyline
sky made of glass
made for the real world
all things must pass"

Carico i commenti... con calma