Quando l’alieno David Bowie, inquieto astronauta degli spazi più reconditi dell’animo umano, incontra l’architetto musicale di perfetti spazi cosmici Brian Eno, ne nasce un disco straordinario. Sto parlando di Low, album del 1977.

Eno sta alla musica come Spinoza sta alla filosofia. Nelle sue composizioni c’è la calma e la perfezione della razionalità. Tutto appare in ordine, anche ciò che sembra malvagio, negativo, caotico. Eno gli trova uno spazio e un contrappunto. Come nella natura: la diseguaglianza è funzionale all’ordine delle cose. Bisogna elevarsi ad una visione oggettiva del tutto, senza fermarsi ad un rendiconto puramente soggettivo.

Ne è capace l’uomo? Non so, io personalmente faccio difficoltà ad avere una tale concezione pacificante dell’esistente.

Bowie con Eno sembra trovarsi in un mondo che sente suo, un universo su misura in cui può esprimere al meglio la propria creatività.

Dopo essersi lasciato alle spalle le lisergiche, luccicanti e viziose notti di Los Angeles si rinchiude in studio a Berlino e come un qualsiasi artigiano musicista semi-sconosciuto è deciso ad immergersi totalmente nel suo “beruf”, nella professione come vocazione. In questo periodo, relativamente breve ma estremamente produttivo, viene generato il materiale che sarà poi utilizzato nei dischi “Heroes”, “Lodger” dello stesso Bowie e in parte in “The Idiot” e “Lust for life” di Iggy Pop.

Torniamo a Low. È incredibile notare quanto l’album non dimostri i suoi quarant’anni ma semmai anticipi ancora i tempi a venire. Non riflette totalmente né la società di oggi né la società com’era alla fine degli anni ‘70. Ha una sua dimensione a venire, non ancora compiuta.

Alcuni brani risentono in misura maggiore di altri della specifica mano di Bowie: “Always crashing in the same car” e “Sound and vision”. In altri, invece, emerge l’influsso del germe creativo contenuto in “Another green world” di Brian Eno, disco del 1975.

Le composizioni sono tutte di eccelsa qualità, ne dovessi scegliere tre non avrei dubbi: Warszawa, Weeping Wall e Subterraneans.

La prima viene attualmente eseguita anche da alcune orchestre di musica classica per la straordinaria bellezza melodica ed espressiva. L’atmosfera è funesta, lo scenario da paesaggio post bellico, in rovina. Un senso di commozione e pietà per l’umanità violata emerge prepotente dalle note.

In Weeping Wall le onde sonore, metafora dei desideri e delle miserie umane, sembrano saltellare ed infine infrangersi contro il muro di Berlino. L’andamento è ossessivo, vi è un continuo tentare, cadere e poi di nuovo tentare.

Subterraneans è il capolavoro conclusivo, i suoni sembrano frutto di sovra-incisioni e nastri che girano al contrario, regole armoniche e ritmiche che vengono letteralmente fatte a pezzi a vantaggio di una minimale ricerca primaria della pura e sotterranea emozione, di un mondo sonoro misterioso e oscuro che ti catturi e attragga verso di sé. La parte finale, cantata da Bowie, è un linguaggio non linguaggio, come fosse la voce dell’Übermensch.

Come parlerà l’oltreuomo, che parole userà? L’autore lascia un punto interrogativo, degno finale per uno degli album più belli e misteriosi degli ultimi cinquant’anni.

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