"Sei sopravvissuto al Songs of Faith and Devotion Tour!"

Con questa targhetta consegnata ironicamente da Daryl Bamonte (sostituto di Fletcher alla fine del tour) al resto della band, si conclude il periodo più massacrante della storia dei Depeche Mode.

E' il 1993 e sono passati 3 anni dal successo mondiale di "Violator".

Bisogna fare un nuovo disco, si è ossessionati dal peso di bissare le vertiginose vendite del precedente, e c'è una certa aria di crisi latente. I Depeche Mode si chiudono in uno stabilimento di Madrid trasformato in una sala di registrazione. Alan, Andy, Martin e Dave, tutti quanti. Avrebbero fatto musica e vissuto insieme come non accadeva da molto tempo. Non si telefonavano e si vedevano poco, chi da una parte e chi dall'altra. Li aspettava un esperienza molto dolorosa che avrebbe inciso per sempre sulla loro carriera. In positivo, ma anche e soprattutto, in negativo. Parto doloroso, infatti, quello di "Songs of Faith and Devotion", ma anche travaglio da cui nascerà una creatura bellissima.

La situazione all'inizio non è per niente la migliore. Quando Daniel Miller, boss della Mute, giunge per un sopralluogo trova uno stato di completa desolazione. Dave, già eroinomane, è chiuso in camera che dipinge candele; Martin Gore e Andy Fletcher leggono il giornale; Alan Wilder è da qualche parte a suonare la batteria; e il tecnico del suono dorme beato coi piedi sul bancone. In un modo o nell'altro però si va avanti.

Che dire... quanti aggettivi si possono dare ad un album come questo? Spirituale, malinconico, oscuro e luminoso, ognuno di questi è riduttivo per descriverne l'intensità. Non c'è dubbio però sul fatto che sia un lavoro nato nell'ambito di grandi difficoltà. E ciò si riflette più che mai nella sua costruzione musicale.

I Depeche Mode si sporcano molto di più del solito. E se c'era stato già qualche assaggio in "Violator" con la micidiale "Personal Jesus", ora la cosa si fa ancora più seria. Questione chiara già dall'inizio con "I Feel You" che provvede già prepotentemente a rompere il ghiaccio col suo riff tremendo. Dave non sta bene, ma quando tira fuori la voce incanta tutti, compagni compresi.  Rari pezzi infatti conservano una passione così grande come "Condemnation". Il canto diventa quasi un lamento, contro i pregiudizi e la falsità, un lamento che sembra invocare aiuto. Gran parte dell'album infatti può quasi essere interpretata come una specie di preghiera. Per Dio, per una donna, o per sé stessi questo interpretatelo voi a seconda dei vostri sentimenti e delle vostre emozioni.

Quel che è certo è che il suono cambia radicalmente. Accanto agli inaspettati quanto magnifici gospel di "Get Right with Me", "Judas" e appunto "Condemnation" si affiancano melodie più rockeggianti. Calano i sintetizzatori ed entrano in scena le batterie vere, come in "In Your Room" o nell'ossessiva "Rush". Che dire poi della serie di archi nella dolcissima "One Caress" cantata da Gore? Mai visto niente di simile fino ad allora.

L'album inaspettatamente vola nelle classifiche e tutt'oggi rimane uno dei più venduti del gruppo. Partirà poi il Devotional Tour, uno spettacolo tanto grande e imponente quanto snervante per qualsiasi addetto ai lavori. I nervi sono tesi, Andy si fa sostituire nell' ultima parte e non si capisce ancora come Gahan sia riuscito ad arrivare vivo fino alla fine alla fine.

E' finito il Devotional, è finito tutto, o quasi. I problemi di Gahan sono appena cominciati e tra qualche anno lo ritroveremo in coma sul letto di una clinica dopo un tentativo di suicidio. Si salverà per miracolo. Nel 1995 invece, Wilder lascia la band, non se la sente più di andare avanti.

Cosa rappresenta dunque "Songs of Faith and Devotion"? Un grande stacco sicuramente, sia dalla precedente che dalla postuma produzione della band. Ma in particolare una sorta di varco da cui non si potrà mai più tornare indietro.

La storia dei Depeche Mode proseguirà comunque, e continuerà a brillare.

A presto dal vostro Alevox!

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