L’ultima fatica targata Dream Theater rappresenta una parentesi musicale controversa e di difficile identificazione, che lo qualifica come disco coraggioso in termini di modernità, ma caratterizzato, a differenza dei precedenti episodi, da una minore verve creativa. Chiariamo subito questo aspetto: se ci fossimo imbattuti nell’ultima fatica dei System Of A Down avremmo gridato al miracolo, ma nel caso del “Teatro del sogno” l’opera si qualifica come uno dei momenti meno convincenti della carriera del gruppo, che sceglie di accostarsi a sonorità decisamente più dure riconfermando le proprie abilità tecniche piuttosto che concentrarsi sul songwriting, allontanandosi dalla versatilità del precedente “Six Degrees…”, rivelandoci un lavoro semplicistico per una band che ha abituato il proprio pubblico a picchi di superba classe musicale.
Se la maggioranza delle band storiche del metal, giunta all’inevitabile oblìo creativo replica gli schemi e le formule consolidate nel tentativo di confermare i propri meriti artistici, i nostri compiono un ulteriore disorientante passo: con la lucida consapevolezza di chi va a suicidarsi, i nostri rinnovano il proprio sound abbandonando la classe e l’inventiva degli esordi per introiettare il proprio sound con riff post-Pantera ed arrangiamenti nu-metal. Date le premesse, siamo portati a considerare questo “Train of thought” come un episodio complementare all’altrettanto deludente “Dance Of Death” dei Maiden: se questi ultimi confermano la leggendaria tendenza a riciclarsi, i Dream si dimostrano invece spavaldi giocandosi tutto, e lo fanno, loro malgrado, in maniera ridicola.
Se la band newyorchese si era distinta, in episodi alterni, per l’originalità e la versatilità, ora dobbiamo far fronte a sfuocate imitazioni di Tool e Korn, affrontando con coraggio linee vocali talvolta rappate e un forte debito verso i “Four Horsemen” più recenti : laddove permane una reminiscenza dell’originalità che ci ha fatto amare i Dream, eccoci aggrediti da una sequenza di stucchevoli - seppur tecnicamente perfetti- assoli, che hanno la valenza musicale di uno sbadiglio annoiato.

E dire che l’apertura sembrerebbe convincente, con un’affilata “As I Am”, che pur pagando dazio ai Metallica epoca “Black Album”, risulta uno degli episodi più entusiasmanti del disco. Con la successiva “This Dyng Soul” il gruppo, dopo una grande dimostrazione tecnica di un sempreverde Portnoy, manifesta la propria volontà di rinnovamento riprendendo i propri cliché più abusati ed impreziosendoli con sonorità attuali. “Endless Sacrifice”, ancora una volta debitrice ai Metallica, presenta una struttura vicina alla pacata “Peruvian Skies” di “Fallin’ Into Infinity”, salvo sboccare in un inopportuno refrain rap/metal che spezza la promettente atmosfera iniziale; una simile soluzione viene adottata anche in “Honor Thy Father”, in cui però l’alternanza di cavalcate metal e di ritmiche più moderniste crea un impatto più sicuro e dinamico. “Vacant”, unico e brevissimo episodio lento del disco, un subdolo ed inefficace rimaneggiamento di “Space-Dye Vest”, precede i torrenziali assoli della strumentale “Stream Of Consiousness”, titolo malaugurato per una band la cui attuale freddezza creativa trova rifugio nello stereotipo : se questo è il flusso di coscienza dei cinque americani che dieci anni fa portarono in auge il prog metal, allora siamo veramente alla frutta. La chiusura è affidata alla cupa “In The Name Of God”, brano che mostra le stanche doti interpretative di un retorico James Labrie e la comprovata efficacia tecnica degli altri. Il brano qua e là attinge alle atmosfere più classiche e dunque interessanti della band, anche se si ha la vaga sensazione che si tratti di un collage dei momenti salienti delle prime produzioni; il brano si rivela tuttavia d’impatto, seppur frenato dalle eccessive lungaggini tecniche tipiche del gruppo.

L’album in conclusione, pur mostrandoci alcuni episodi validi, si rivela un colpo basso per i fan di vecchia data, mentre potrebbe essere l’occasione, sicuramente già valutata in fase di produzione, di accaparrarsi un nuovo seguito di pubblico, più avvezzo alle sonorità attuali.

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