Ciò per cui lotto da tempo, e per cui ho maturato la scelta di inziare a scrivere da queste parti, è la rottura del luogo comune, o per meglio dire del pensiero pigro, quel processo mentale-autoanalitico che ti porta a sposare un'idea solo perchè ampiamente condivisa dall'ambiente che ti circonda. Il pensiero pigro prende corpo dalla diceria comune, dalla chiacchiera da mercato o da bar sport, dallo stereotipo che, ripresentandosi in modo rindondante, finisce col marchiarsi sulla tua coscienza e farti credere che il suddetto pensiero sia di tua formulazione. Per farla breve, a me non frega nietne del fatto che "La Voce del Padrone" sia reputato un capolavoro; a me non piace, gli piazzerei tranquillamente una bèla stèla, ma ne metterò 3 così da non scandalizzare il pubblico pagante. Detto ciò, spieghiamo ciò che non va in ciò ci cui stiamo parlando.

"La Voce del Padrone", come ogni prodotto commerciale che si rispetti, ma che abbia le dovute pretese artistoidi, adatta l'estero al contesto italiano. Il synth-pop di Battiato, scevro dell'esistenzialismo nero di matrice britannica, serviva a dare alla musica da balera romagnola una maggiore dignità artistica, e al contempo si adoperava per non rendere la pillola della musica sperimentale e d'avanguardia troppo dura da mandare giù per il pubblico italiota. La filosfia spiccia e qualunquista permeava, e permea, in lungo e in largo questo LP; dove in Europa e in America la musica per tastiere si stava condensando al funk per generare una forma musicale androgina, catartica e rivoluzionaria (la dance anni '80), dalle nostra parti Battiato rendeva tutto frivolo e leggero, godibile, radiofonico. Piatto, inoffensivo. Senza dimenticare il solisto esotismo da due soldi - tra ballerine gitane, gesuiti, sentimiento nuevo - perfetto per confezionare un prodotto musicale adatto alle masse ma che non perdesse il suo carattere di "opera bianca ispirata alla musica etnica", e quindi colta.

Dove la synth-music europea offriva un'innovativa forma di sfogo al desiderio di libertà gridato a gran voce dagli emarginati, quella di Battiato si proponeva solamente come la sua controparte reazionaria, fatta di poesiola accennata quel tanto che basta a far sentire il pubblico più colto, un po' di ritmo black giusto per non farsi mancare la sviolinata della critica (che puntualmente arrivò) e un'androginia un po' paracula, con un melodismo e impostazioni vocali gay-friendly piuttosto ruffiane.

Non è con la musica piatta che si combatte la rivoluzione. Non è con la musica pop fatta tanto per fare che si può ingannare la gente. O forse sì. Sta di fatto che questo album di Battiato ha infranto record di vendite, e sapete in che modo? Dando agli italiani esattamente ciò che volevano: musica oggettivamente scontata, ma che suonasse accogliente. Bisongerebbe dimenticarsi di ogni eventuale processo creativo, perchè qui ciò che conta è il risultato: un lavoro che, vi piaccia o meno, non ha resistito allo scorrere inesorabile del tempo e che, se un tempo poteva apparire (ai meno attenti) fresco e divertente, quando non "innovativo", oggi risulta invecchiato piuttosto male, oltre che, per certi versi, veramente imbarazzante.

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