E' possibile tracciare una linea divisoria che possa definire perfettamente un limite entro il quale una qualsiasi forma d'arte, da quella più complessa a quella più embrionale, da quella più elevata a quella più bassa, possa qualificarsi come impersonale? E se non è possibile, nel momento in cui essa interagisce con un indeterminato tipo di contingenza reale, fin dove si lascia intaccare da queste ultime? Sono domande che mi pongo ogni volta che scrivo qualcosa: fino a che punto ciò che scrivo può essere condizionato dal mio vissuto, dalla voglia di fare del mio meglio e dalla parallela apatia per l'insoddisfazione continua, per i miei stupidi preconcetti, per l'odio che mi fa sentire piccolo piccolo, per questa sigaretta che sta già per spegnersi. Ogni volta mi sembra impossibile dare una risposta precisa ad ognuno di questi interrogativi perché nessuna risposta potrebbe assumere dei connotati di generalità tali da poter soddisfare tutte le fattispecie concrete che la casualità mette a nostra disposizione e svantaggio. Dunque, non ci resta che analizzare il particolare piuttosto che l'universale. Il caso particolare di mio interesse oggi è la seconda opera in studio dei Joy Division, pubblicata nel 1980. Per quale motivo, diranno in molti. Perché trae la sua bellezza proprio dall'intrecciarsi in maniera così inscindibile rispetto alla vita di Ian Curtis, leader della band, e al destino della band stessa che il triste risvolto autobiografico (Curtis si toglierà la vita il 18 Maggio del 1980, impiccandosi) appare come il naturale prosieguo di quanto il disco trasmette.

Ma "Closer" non è solo un testamento e, soprattutto, non è melodrammatica messinscena. E' rappresentazione, illustrazione di un mondo interiore che non trova stabilità e che arriva ad implodere, consapevole di avere come fine ultimo l'autodistruzione, come prefigura la splendida copertina, rappresentante un feretro e delle figure in atteggiamento di cordoglio (come molti già sapranno, il soggetto fotografato in copertina appena descritto è il monumento funebre della famiglia Appiani a Staglieno, nei pressi di Genova). "Closer" è un'esperienza che ogni appassionato/a di musica dovrebbe intraprendere, accompagnato/a dalla voce disincantata e stentorea di Curtis e da quei suoni al limite dello spettrale.

"Atrocity Exhibition" prende il nome dalla raccolta di racconti del celebre James Graham Ballard, un'opera del 1970 (tradotta in Italia con il titolo "La mostra delle atrocità", per chi fosse interessato) alla cui base risulta esserci un gusto perverso per l'insanità mentale, la sessualità (se non la pornografia), le atmosfere macabre. Ad aprire il brano, la batteria di Stephen Morris che aderisce con percussioni quasi tribali la voce di Curtis e quel suo ossessivo ritornello "this is the way, step inside", un invito al viaggio, a condividere il suo dolore. Ascolti poi "Isolation", vedi i Joy Division anticipare il synth-pop e ti rendi conto di quanto debbano loro i Depeche Mode, i Duran Duran, i Soft Cell, tanto per citare dei nomi. Arriva "Passover" e di nuovo quella batteria che sembra voler imitare le pulsazioni del sangue nelle vene, seguendo una regolarità inquietante e fluendo al di sotto di un testo che mira a descrivere il caos dentro la testa di Curtis, quel caos che si unì ad una visione sconsolata e desolante del mondo ("Colony"), certamente influenzata dal pessimismo al quale il suo "grande male", l'epilessia , lo aveva condannato; che lo aveva portato a stancarsi della sua esistenza. Ma il meglio arriva con "Heart and soul", un altro ritratto di sé stesso fra paure, delusioni, maniacalità, la traccia più ipnotica dell'album, un manuale di istruzioni al suo male di vivere.Si passa poi a "Twenty four hours" dove il tono cantilenante del leader combacia alla perfezione con la chitarra monotona di Sumner. Un accumulo di tensione che trova sfogo nella bellissima "The Eternal" con quel pianoforte che si impone distintamente su suoni distanti come echi. Il percorso catartico si conclude con "Decades" dove la band si avvolge in un alone nebuloso, distante, quasi a volersi già dichiarare appartenenti al passato.

"Closer" brilla del fascino dell'opera crepuscolare, dove regna un senso di fine, di consunzione, di morte e i suoi testi sono il diario di un uomo che ha già scelto di morire perché dentro non riesce a percepirsi vivo. E' un grande poema del sentimento individuale, che in alcuni punti custodirà dei tratti ambigui, difficili, criptici. Una sola persona avrebbe potuto spiegarli al meglio, ma come già detto, questa persona purtroppo, non c'è più

Come direbbe Pollice "A lasciarci per primi sono sempre i megli!"

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