Se c'è -o meglio, c'era- un gruppo che, in soli due dischi, ha saputo rivoluzionare e praticamente creare un intera corrente musicale... beh, questi sono (anche) i Joy Division. Che, dopo il fulminante esordio di "Unknow Pleasures", si sono rimessi in gioco e hanno sfornato quello che può essere considerato il capolavoro assoluto della musica dark (chiamata anche gothic rock, sigh).

Innanzitutto esaminiamo il frontman della band. Tra le figure più affascinanti e angoscianti della storia del rock, Ian Curtis nasce a Manchester nel lontano 1956 e -udite udite-  si toglie la vita nel 1980, poco prima l'uscita di questo capolavoro, recensito qui sotto. Schiacciato da un mondo che non può soportare, contrito in una morsa di disperazione, si chiama fuori causa; per sempre. Soffiriva di epilessia, tant'è che, per quanto concerne i concerti, non c'era mai la sicurezza che sarebbe riuscito a resistere sul palco, poiché le luci penetranti gli provocano attacchi (costringendo il gruppo a portarsi dietro un sostituto per ogni evenienza). Su di lui è stata scritta una bellissima biografia, e girato uno splendido film. La sua voce robotica, che nascondeva sotto molti strati un male esistenziale mostruoso, ha fatto storia. É lui, era lui, l'anima  della band, l'estro creativo; i suoi testi sono semplicemente sconvolgenti, poetici, affascinanti come pochi, e riflettono un dolore incommensurabile. Provate a cercarne uno su internet, e ve ne accorgerete da soli. Poeta maledetto del ventesimo secolo, senza alcun dubbio.  Impiccatosi, continua tuttavia a dimorare dentro di noi. Questo perché ascoltare un suo brano ruba l'anima, letteralmente. Ma veniamo al discone...

Si comincia con la sconvolgente, tribale e angosciante "Atrocity Exhibition". Stecche lancinanti e dolorose fuoriescono dal basso e dalla chitarra, mentre le percussioni si lanciano in un macabro ritmo tribale che scorre invariato dall'inizio alla fine. Sotto il marasma di suoni oscuri, Curtis cerca di cantare, anzi, di urlare... per farsi sentire. "this is the way, step inside". Ed è l'apoteosi.  Senza dubbio un capolavoro. Si prosegue con la ballata "Isolation" e con la punkeggiante "Passover", due brani molto belli e perfettamente in linea con il resto dell'opera. La violenta e apocalittica "Colony" è tra i pezzi più deboli, ma si fa ascoltare. Eccoci a "A Means To An And", dal ritmo bellissimo, trascinante. Altra perla unica. L'esplosione finale è qualcosa di memorabile.

Ben arrivati ad "Heart and Soul", tra i brani più belli dell'album. La voce di Ian si fa sibillina e tentatrice, da far gelare il sangue nelle vene; mentre il sottofondo sonoro eccheggiante sembra provenire da una lugubre stanza vuota, annegata nel buio della notte. Il finale, è composto dal rumore di una saracinesca (ma ognuno la interpreta come vuole) che si chiude, si riapre e si richiude. Da antologia.

Dalle stelle alle stalle, con la bruttissima "24 Hours". Fortuna che dopo di essa, arriva una marcia funebre di altissima qualità... il vertice, "The Eternal". Probabilmente il pezzo più drammatico e oscuro di tutti i tempi. Battiti sordi, voce dall'oltretomba, cori oscuri. Una processione, nera come il pozzo dell'inferno, il testamento di Ian Curtis. Ogni tanto si sente il pianoforte, e sono piccoli sprazzi di luce in un mare senza via di uscita. Qualcosa di trascendentale, opera d'arte. 

A suggellare questo enorme capolavoro, ecco una splendida ballata, "Decades", travolgente come un fiume in piena. E ci si rende conto, esterrefatti, di aver ascoltato e magari anche compreso la disperazione di un ragazzo ventiquattrenne. 

Non è per tutti, ma tutti dovrebbero provare ad ascoltarlo. Una volta penetrati nelle viscere velenose, non se ne esce più.  

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