A differenza del suo amico-rivale Neil Young, "Loner" per (auto)definizione e cronico insofferente nei super-gruppi in cui si è avventurato, Stephen Stills ha sempre sguazzato felice e autoritario nei vari dream team che hanno costellato il periodo aureo della sua carriera.

Nel 1972, il musicista texano aggiunge un altro tassello al suo brillante curriculum, dopo Buffalo Springfield, Supersession con Kooper-Bloomfield e ovviamente CSNY, senza contare la parata di all-star ospiti nel suo debutto solista del 1970. Assieme all'ex bassista dei Byrds Chris Hillman, egli fonda i Manassas, cooptando oltretutto Al Perkins (già chitarrista con Hillman nella gloria country rock Flying Burrito Brothers), la sezione ritmica di CSN ( Dallas Taylor Calvin "Fuzzy" Samuels), il tastierista Paul Harris e il percussionista Joe Lala.
La ragione sociale è scelta in onore di una delle battaglie più famose della Guerra Civile Americana, ed è un indiretto omaggio a The Band, il gruppo che per primo aveva rievocato i fantasmi dell' America più arcana traducendoli in musica, ripescando dalle vecchie cassapanche impolverate le mappe militari di quel conflitto nella celebre "The Night they drove old dixie down".

"Manassas" può tranquillamente essere ascritto tra i vertici della carriera di Stills: è un imponente doppio album, suonato divinamente, che tocca tutto lo scibile compreso tra quel sound westcoastiano di cui Stephen deteneva a ben donde le chiavi, qui espanso in figurazioni sovente originali, e inusitate divagazioni latineggianti, bluegrass e jazz. Il tutto denso dii umori e odori di una stagione irripetibile che volgeva al termine É il trionfo dello stakanovista Stills, capace di passare con invidiabile smalto tra i vari generi e dotato di un gusto raffinato e unico negli arrangiamenti. Non a caso Bill Wyman, ospite in un brano, disse che avrebbe voluto unirsi al progetto stillssiano. Per sua fortuna, "faccia di pietra" rimase a rotolare ancora con Jagger e Richards, visto che la magia dei Manassas sarebbe svanita già col passo successivo, il mediocre "Down the road".

Il lavoro è diviso in quattro parti, ciascuna per facciata. La prima, "The Raven", è il manifesto sonoro del progetto, con una serie di vibranti e dilatate incandescenze. "Song of love", finestra disincantata verso i Sixties e possibile ultimo inno generazionale, si regge sulle fiondate chitarristiche di Stephen e sulla sua voce calda e tagliente incastrata su un tessuto percussivo latineggiante, deriva accentuata dal successiva "Rock & Roll Crazies / Cuban Bluegrass".
"Jet Set (Sigh)" sciorina un dialogo da brividi tra la sei corde elettrica di Stephen e la pedal steel di Perkins, mentre l'acme stilistico-emotivo è raggiunto con lo slancio onirico di "Both of us (Bound to lose)", suggellato nel finale da un assolo liquido e nervoso del nostro.

La seconda facciata, "The wilderness", porta l'ascolto su lidi più convenzionalmente country-bluegrass, con Stills che riesce comunque a regalare un paio di momenti memorabili. La sognante pianistica di "Jesus gave love away for free" è un sentito omaggio al Gram Parsons più felice, con intrecci vocali fantastici tra Stephen e Hillman, mentre le malie country-folk di "So begins the task" non avrebbe sfigurato sul "Déjà vu" dei quattro compagni di merende. L'anima folk-rock viene accentuata nella terza side, "Consider". Qui svettano certamente il calore di "Johnny's garden" e la furia, trattenuta e imprigionata in sinuose movenze, di "It doesn't matter" (co-firmata da Hillman), con la pedal steel di Perkins intenta a disegnare fumosi aromi border. Stills regala poi un'altra ballata suadente su "Move Around", circolarmente mistica e lisergica, uno dei suoi capolavori dimenticati, capace di creare scossoni emotivi intensi quanto quelli dei suoi sodali Young e Crosby.
L'ultima facciata ("Rock and roll is here to stay", frase che Neil avrebbe citato su "Rust Never Sleeps"). suggella l'opera in chiave visionaria con un impeto che mischia la matrice rock-blues con la gioia dell'improvvisazione pura. Gli otto minuti di "Treasure", ancora freschissimi senza apparire mai ridondanti, sono certamente tra le migliori cose mai fatte da Stills. Il Cowboy texano è qui impegnato a forgiare strepitosi ghirigori elettrici di sapore funky wah-wah e a solcare l'incandescente magna sonoro dei Manassas col piglio del miglior direttore d'orchestra.

Il sipario cala degnamente con Stephen finalmente solo, dopo cotanto, florido parco strumentale: voce e chitarra per il commiato di "Blues Man", sentita dedica a Hendrix e Duane Allman. Un piacevolissimo epilogo, non contorto e torturato come il suo sodale Young, inarrivabile architetto della solitudine, ma perfetto, dopo questo viaggio a rotta di collo nel tessuto sonoro americano più puro.

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