Bryter non è certo il miglior album di Nick Drake, ma cinque stelline comunque se le piglia. E fa niente (uno) se su dieci pezzi, tre sono strumentali piuttosto scialbi e altri due dicon pochino pochino. E fa niente (due) se altre tre canzoni tre son disturbate da una cangiante e continua interferenza di archi pomposetti e sassofoni quasi jazz il cui nome, se non vi dispiace, è cavoli a merenda. E fa niente (tre) se una strana specie di quasi pop e di quasi andante con brio colora in modo un tantinello improprio le formidabili parole di nick su solitudine, identità, disperazione, quasi come se il vecchio Robert Johnson fosse finito al luna park a vendere zucchero filato. E fa niente (quattro) se in conclusione, facendo un rapido conto (tre più due più tre) siamo arrivati a otto. Anche perché, i brani essendo dieci, vuol dire che di capolavori ce ne sono almeno due. Troppo poco per cinque stelline, stellucce? Oh no, proprio no. (And why?)

(Because) questo è uno di quei rari casi in cui il tutto supera la somma delle parti. E ascoltato dall'inizio alla fine, Bryter in qualche modo passa, scorre. Specie se ti rilassi un po' e ti dimentichi di alcune dure e fierissime regole che ti sei dato, tipo gli archi mai, le orchestrazioni neppure. Cosa non facile se vieni da Pink Moon, ovvero il tuo primo Nick. Non facile la prima volta e non facile nemmeno oggi. Che a volte lo sgomento m'assale ancora, anche se poi passa.

Ma andiamo con ordine, dopo il breve e delicato strumentale ”Introduction”, parte “Hazey Jane II” ed è un inizio sparato, come se si fossero accese improvvisamente le luci nel cuore della notte, con Nick che canta velocissimo e a fatica sta dietro al ritmo, piuttosto inusuale per lui, di questa strana canzoncina pop. E, quasi in apnea, ripassa mentalmente le immagini dell'incubo dal quale si è appena svegliato: “la donnola dai denti aguzzi che la sera ti morde” quando sei in disarmo e l'angoscia mortale del mattino quando “non riesci” nemmeno a “guardar fuori dalla finestra”. Poi la voce diventa finalmente rassicurante..."hey take a little"... prendi tempo"..."fai crescere i capelli a tuo fratello, rifatti il trucco, ricominciamo..." "prenditi un momento per far luce sulla tua storia..." e Nick partito in quarta, in ritardo rispetto alla musica, ora in quella musica si è orientato e ha trovato casa...e sembra uno che finalmente riesce a respirare. Anche se, certo, come dice mirabilmente “se le canzoni fossero discorsi la situazione migliorerebbe”. E siccome non lo sono, non migliora per niente.

Poi arriva “At the Chime of the City Clock”, e l'inizio è uno di quelli che ti stende e non fa prigionieri, così misterioso, così evocativo, con quella voce che entra con un leggero tremolio, calcando sulla parola freeze, il freddo della città ghiacciata... ah.questa canzone mi commuove così tanto!!!.Che si, fa freddo e bisogna mettersi in ginocchio, ma poi, che cazzo, no, fatti un giro, monta la sella, vai qua, vai la, tieni in alto la tua corona, che un sassolino è la tua ricchezza anche se hai perso la tua armatura...che tutti ti vedono strano...che mica brillano tanto le stelle a causa di come sei messo male...che è dura essere un cavaliere medievale a londra nel 1969. Poi devo dirvi di come ascolto questa canzone in macchina, che la macchina si muove, la musica pure. Mettici poi certe stradine di campagna, mettici una certa luce, mettici che ti va di cantare. Allora, con chime io arrivo ad un certo punto, poi torno indietro, arrivo a quando dice “the games you play make people say you're either weird or lonely”faccio finire la strofa e poi di nuovo all'inizio. E come mai direte voi? E' che anch'io sono un tipo che i giochi che faccio fanno dire alla gente che sono solo e strano, è quello, quello ma non solo, c'è anche che è bello come ci arriva: è come se quella frasetta riassumesse tutte le parole dette prima e anche quelle che verranno dopo. E allora mi piace cantarla...e ricantarla...e torno indietro, ve l'ho detto...e mi ci vuole roba per arrivare alla fine. Si, roba e, ogni tanto, un po' di sgomento, per quei sassofoni e violini, ovvero ancora quella vecchia storia dei cavoli a merenda.

“One of These Things First” è una canzone perfetta, forse troppo. E allora il segreto è non farci caso, lasciandosi trasportare da quel flusso, carezzevole e benigno, di incredibile leggerezza. Che se esci dal flusso e ascolti le singole parti (il pianoforte brioso, le ritmiche perfette, la chitarra di nick), che se poi fai anche caso a tutti gli svolazzi in cui quelle parti si incontrano a mezz'aria, forse tutto ti sembrerà troppo barocco e troppo pulito, troppo perfettino. No, davvero, se nei uscito, nel flusso rientraci. E, anzi, alza il volume. E mettiti a fluttuare nella stanza, fallo, anche se c'è uno zero virgola uno di malinconia. Anzi, soprattutto perché c'è uno zero virgola uno di malinconia, inevitabile se la voce e le parole sono quelle di nick drake. Che qui si parla della impossibilità di essere, oltre che di quello che poteva essere e non è stato. “Avrei potuto essere” dice. “I have could been” questo, “I have could been quello”. ” Avrei potuto essere un marinaio, un cuoco, un libro, un orologio, il tuo sostegno, la tua porta, un fischietto, un flauto, uno stivale, avrei potuto essere tuo, avrei potuto restare più a lungo”eccetera, eccetera, eccetera...ed è buffo questo mischiarsi di oggetti inanimati, ruoli, situazioni, anch'esso a suo modo una specie di flusso, che si accompagna benissimo a questo andante autunnale vivace. Solo che poi nick dice: “avrei potuto essere tutte queste cose prima”...per poi aggiungere, in modo quasi agghiacciante: “e potrei essere...qui e ora...vorrei essere... dovrei essere...ma come?”...(“I could be here and now, I would be, I should be, but how?”). Ma come?...già, come? E allora quella musica, il nostro andantino vivace, è il flusso che contiene tutte quelle possibilità, distanti uno zero virgola uno dalla voce di nick e dal suo sussurro di miele...ma non importa, io fluttuo nella stanza...e alzo il volume...che pure io sono distante...e quel “ma come?” lo abbandono alla dolcezza di un pianoforte che vaga in una trappola per topi.

“Hazey Jane I” e la strumentale “Bryter Layter” , pur perfettamente inserite nel mood dell'album, son così, così.

“Fly” no, “Fly” non è così, così. Che qui Nick si sdoppia e all'inizio strozza la sua voce così perfetta e invoca una seconda grazia, per liberarsi dalla maschera, anzi dalle maschere. Poi la voce torna di miele e si fa di una serenità sconvolgente: “siediti sullo steccato” e non fa niente se non riesci a “volare”, siediti dai, non fa nulla, davvero. Come diceva il buon vecchio robyn? “Un artista forse vuol cantare proprio quelle parole, o forse invece canta il loro sentimento, l'importante è che escano bene dalla bocca”. E certo qui escono bene, e il sentimento con quel trucchetto delle due voci esce anche meglio. Ma alla fine quello che voglio dire è che la prima voce piange e la seconda abbraccia. Ah, qui ad arrangiare c'è john cale e si sente. Io però son quasi più legato alla versione del postumo e meraviglioso “time of no reply”, soprattutto per quel dolcissimo finale di chitarra, intenso...slabbrato...tremolante...perché la chitarra tra quelle due voci non sa quale scegliere.

“Poor Boy” è caruccia, ma davvero non c'entra nulla con Nick. La cosa divertente è che la sua mamma, che anche lei amava comporre canzoni, risponderà con poor mum (la potete scoltare nelle home recordings, gli straordinari quaderni di schizzi drakiani).

Quasi alla fine arriva poi “Northern Sky”, con quelle parole che parlano di “magia folle, di “emozione sul palmo della mano”, e quel rimando così blues ad un passato in cui si era sfiniti e il vagare era senza senso...quella melodia gentile e quei suoni squillanti e trattenuti a un tempo, sole e nuvole, magia e blues nel mortaio alchimistico/ musicale e la solita voce di miele a invocare... Una canzone piena di speranze, ma che non tralascia le sottili incrinature, le scarpe troppo strette del viaggiatore di sogno. Una canzone dall'arrangiamento complesso, un blues da camera in un certo senso. Non c'è la magia del soprannaturale rapporto voce/chitarra, eppure tutto si tiene e l'architettura complessa, per una volta, aggiungendo riesce a non togliere nulla, accontentando così i sublimi esteti dell'economia della sensazione. Il momento più emozionante è quel passaggio dall'estasi alla rievocazione della tristezza, le sottili incrinature che dicevamo...con un pianoforte che va direttamente in cielo a spazzar via le nuvole, lasciando che le nuvole si trasformino in parole. Anche qui arrangia John Cale e anche qui si sente.

Rimane solo il tempo per un altro innocuo strumentale, ovvero il riposo del guerriero. O del poeta.

Concludendo, Bryter è iperprodotto e la voce di Nick è spesso soffocata e, con l'eccezione di Fly, Northern Sky, Chime of the City Clock non ha l'incredibile profondità e distanza del primo album, dove la lontananza diventa intimità. Non ha la sconnessione di pink moon e delle ultime canzoni, quelle che finiranno in Time of no Reply. E questo forse è il peccato più grave. Però...

Però c'è come un flusso, una specie di primavera fittizia, una illusione. Come fossero ancora due voci, quella straziante delle parole, e quella, tutta sommato, indimenticabile di una musica che vola, forse solo sforzandosi un po'.

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