V'era un tempo in cui un aereoplano variopinto sorvolava alto i cieli di San Francisco irrorandoli di peace&love. Era l'estate del 1967, e quell'aereoplano che scorrazzava nel firmamento californiano sembrava non volesse mai atterrare: il suo carburante era la libertà, il suo motore la musica. Poco più giù, due Americhe: una grigia, canonica, sistema-tica, che vestiva fredde uniformi e ostentava sciovinismo, e un'altra fiorita, birichina, passionale, che dopo aver fatto all'amore soleva volgere lo sguardo a orizzonti di eterna gioventù. A quest'ultima apparteneva un giovane occhialuto e capellone appassionato di musica e fantascienza, un certo Paul Kantner. Ma Paul non era un giovane come tanti: pur assomigliando più a Woody Allen che a Mick Jagger, era anch'esso una rock star: la musica dei suoi Jefferson Airplane aveva fatto da colonna sonora alle estati lisergiche che scaldavano la Bay Area. Anche per lui, al tempo, sarebbe stato difficile immaginare che quell'oasi così reale e piena di vita potesse evaporare in sogno, e il sogno in utopia.

In poco tempo il Movement cominciò a sgretolarsi: gli "esili" di Hoffman, Sinclair e Rubin erano specchio della resa dei giovani volunteers d'America; l'ideologia che da pacifista mutò in rivoluzionaria diventava una lama a doppio taglio; se le Wooden Ships erano favolette, Altamont era la storia. Per quella generazione, memore e coeva dei fantasmi di Nixon, giungeva così un turning-point: capitalismo e nazionalismo cominciarono ad essere ignorati, il loro deciso rifiuto prevalse sull'infruttifera contestazione. E Paul Kantner stava per tradurre in musica la presa d'atto di tutto ciò

Per abbandonare le magagne della società e partire alla ricerca di una terra incontaminata non era più sufficiente quell'aereoplano, ora c'era bisogno di un'astronave; ecco dunque comparire accanto al nome di Kantner la sigla "Starship": l'evoluzione "tecnologica" causò la perdita di vecchi membri dell'equipaggio (Balin, Dryden), il mezzo servizio di altri (Kaukonen, Casady) e l'assunzione di nuovi (Jerry Garcia, Crosby, Nash e altri membri da Grateful Dead e Quicksilver M. S. ), per un progetto talmente ambizioso da meritarsi addirittura la nomination per un premio letterario, l'Hugo Award, come miglior "fiction" fantascientifica dell'anno.

Ma "Blows against the empire" è molto altro: socialmente è Bibbia, Manifesto, testo sacro dell'ideologia hippie, musicalmente è summa impeccabile di tutto ciò di cui la musica rock si era fino ad allora nutrita (folk, garage, hard rock, psichedelia, blues, country, jazz, elettronica, progressive), letterariamente è mole impressionante di citazioni e riferimenti colti (Omero, Marx, Vangeli, Huxley, Leary, Shakespeare, Einstein, Blake, Clarke), storicamente è prestigiosa fonte di attendibilità, alle soglie di un decennio cruciale non solo per l'America.

Ma, più in generale, è il sogno dei '60 del rifiuto del mainstream portato ai suoi estremi antipodi.

Basandosi anche sulle idee dei romanzieri fantascientifici Robert Heinlein e Theodore Sturgeon, Paul Kantner e la neo-compagna di vita Grace Slick danno così vita ad una titanica rock-opera pregnante di creatività musicale e di allegoria socio-politica.

In dieci tracce è narrato il viaggio cosmico di un'astronave di hippies che vagano tra le galassie alla ricerca di un'oasi candida e incontaminata dal capitalismo terreno; la troveranno sulla luna, colonizzandola e procreando generazioni "pure e immacolate".

"Nasconditi strega, nasconditi! C'è della gente per bene che sta venendo a bruciarti, con la loro aspra goduria celata da una gotica maschera di moralismo", gridano all'unisono Kantner e la Slick all'inizio di "Mau mau (Amerikon)", con quella rabbia che già fu di Volunteers, ma soprattutto dei portavoce generazionali. Il prosieguo del brano sposa il sound grezzo di Detroit: ritmica ossessiva, chitarre cruente, liriche aspre e provocanti ("Dick" è Nixon) ma anche speranzose ("The dawn comes" / "A new world today"), brevi inserzioni acide a scandire la progressione strutturale.

La successiva "The baby tree", cover di Rosalie Sorrels, è una favolistica ballata folk per banjo e chitarra acustica; illustra la purezza di un mondo dove i bambini nascono sugli alberi, ed è ingenua e toccante nella sua utopia.

Il rock tradizionale viene definitivamente abbandonato con "Let's go togheter", liberatorio inno d'addio al pianeta terra che avrebbe ben figurato sul precedente "Volunteers". E' un pezzo allo stesso tempo complesso ed incantevole, con i vorticosi intrecci vocali  di kantner e della Slick che si rincorrono tra l'incalzare del piano di lei e i capricci del banjo di Garcia; la sezione ritmica addirittura pecca d'efficacia. Debordante.

L'autobiografica "A child is coming" (la Slick era in stato interessante) è il punto di partenza per il popolamento di una nuova terra; China (questo il nome della bimba della Slick) giunge quasi come segnale profetico. La voce di Crosby, ma anche la sua mano nella composizione, sono evidenti: dal calore della ballata country con tre voi a festeggiare l'imminente nascita si passa alla paura del mondo che si aprirà agli occhi del nascituro, manifesta nel cupo intimismo di controcanti, bassi solenni, altalenanti tappeti di piano e chitarre distorte ad accompagnare liriche per certi versi ambigue. Brano che, più che assumere connotati senz'altro vicini al progressive, lo rivolta come un calzino, con grazia e sapienza.

"Sunrise" della Slick accoglie la nuova alba nascente: le sue voci sovrapposte, sulla base della pedal steel di Garcia, illuminano il giorno.

Con la nostalgica "Hijack" il viaggio spaziale è in pieno compimento, la ricerca della libertà nelle sue più svariate manifestazioni esplode nel piano ardente e nel cantato esasperato, con un Kantner in stato di grazia nel suo epico incedere; il morbido jazzato/elettronico finale va quasi a placare l'osmotica estasi collettiva. Giù il cappello.

"Home" simula l'atterraggio dell'astronave su territori krauti, potremmo dire.

"Have you seen the stars" è la dolce visione di un'astronave dondolante nel cosmo, con Garcia ed Hopkins ad infrangere i silenzi astrali.

Ancora a dar sostegno alla struttura del concept, "XM" è una rassegna di suoni tratti da colonne sonore di film di fantascienza.

La conclusiva "Starship", con il piano della Slick ancora a farla da padrone, è una corale celebrativa, si festeggiano le nuove terre colonizzate e i metodi di sopravvivenza da adottare; finalmente i wanderers evadono dalla gabbia e girovagano nell'immensità cosmica, e qui più che mai ci si accorge dell'uguaglianza jam psichedelica=quintessenza di libertà.

Purtroppo la leggendaria parabola ascendente a nome Jefferson, e forse anche il sogno hippie, terminano con quest'opera colossale. Ma sognare è stato bello...

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