Per lungo tempo "Meddle" è rimasto l'ultimo album dei Pink Floyd in cui la band si mostrava in ritratto. Per giunta l'ultimo - a tutt'oggi - in cui appare la formazione con Waters. Segno sintomatico che questo album ha rappresentato uno spartiacque o la fine di un ciclo?

Può darsi. In effetti la struttura compositiva di "Meddle" è talmente eterogenea rispetto ai lavori precedenti e successivi che viene da pensare a un messaggio tra le righe, indubbiamente intuitivo, che determina la definitiva posizione dei Pink Floyd nel panorama culturale del rock internazionale, nonchè il distacco dalle etichette che erano state loro appioppate nella fase Barrett e dopo-Barrett. "Meddle" spiazzò all'epoca il crescente popolo dei fans, che dopo le sinfonie trombonico-progressive e i divertissment sperimentali di "Atom Heart Mother", non si aspettavano un excursus nel blues e nella ballad intimistica, tantopiù se coniugati al martellante incipit di un pezzo come "One Of This Days" e alla memorabile suite di "Echoes". Qualcosa evidentemente suonò come un tradimento, o meglio come una mancanza di decisione sulla strada da percorrere dopo l'exploit della psichedelia e la tutto sommato breve stagione prog-rock.

In realtà incarnare i Pink Floyd nei vagheggiamenti del blues non era fatto poi così sorprendente, se è vero che lo stesso Gilmour non aveva mai smentito nè rinnegato il suo amore per il genere e, di fatto, tracce di una musicalità più tradizionale sono reperibili in vari capitoli della discografia floydiana degli anni '60. Semmai quello che poteva stupire era proprio questa commistiione eterogenea di registri, che come dimostra visivamente la quasi coeva pellicola di "At Pompei", poneva la band al giro di boa di una consacrazione che doveva necessariamente svincolarla dai clichè della psichedelia senza allontanarla dalla connotazione sperimentale e avanguardista; e nel contempo doveva consolidare la fruibilità di una musica da cui un pubblico ormai stimabile in milioni di ammiratori si aspettava emozioni.

Ecco allora che la tarantella monocorde e lacerante del brano di apertura, divenuta uno dei titoli simbolo del Floyd-Sound, viene fortemente contrappuntata dalle melliflue atmosfere di "A Pillow Of Winds" e dalle schitarrate acustiche di "Fearless"; per poi ammiccare ad un apparente disimpegno con "St. Tropez" e terminare la side A con l'apoteosi canina di "Seamus", dove Seamus è il nome del cane latrante protagonista (nel film pompeiano lo stesso brano diverrà infatti "Madmoiselle Nobs" perchè a latrare lì era una levriera così battezzata).

Proprio in funzione di "One Of These Days" i succitati pezzi a seguire soffrirono a lungo di una sottovalutazione, in quanto il loro impatto risultava minore rispetto a quanto il gruppo aveva scritto fino ad allora. Ciò a discapito di una coraggiosa scelta di proporsi sotto una veste più confidenziale e di una serie di liriche tutto sommato non scadenti per qualità. Anzi, reputo che "A Pillow Of Winds" sia una canzone molto azzeccata ed emozionante, specie se assimilata nell'ottica della sua genesi: Mason ricorda che fu scritta durante una vacanza sulla Costa Azzurra, quando loro e le rispettive famiglie trascorsero piacevoli giornate sulle spiagge e rilassanti serate in hotel a giocare a mahjong - tra le cui figure ce n'era appunto una chiamata "cuscino di venti". La forte componente naturalistica e climatica del testo sposa i fraseggi di chitarra con una levità che raramente Waters e Gilmour ritrovarono in seguito.

Quanto a "St. Tropez" che è un'altro stralcio di vita vissuta e di dimensione "umana" floydiano, ci tengo a sottolineare che la signora Rita Pavone si è troppo a lungo illusa che i versi citassero il suo nome alla fine, come dovuto omaggio ad una stagione del pop mediterraneo italico. A parte il fatto che la Pavone non avrebbe avuto alcuna reale attinenza con "St. Tropez" (se non una fantasia canzonettara), è dato di fatto che il testo laddove sembra pronunciare in un italiano biascicato il suo nome, in realtà dice "later by phone".

Poi c'è "Echoes"... Già!. . . . Su questa lunga suite sembra che tutto sia stato detto, sia sotto il profilo musicale che su quello emozionale. Una suite effettivamente molto dilatata che consta di parti ben definite e si struttura come un viaggio onirico e mnemonico che nei suoni delle due parti centrali trova l'evocazione intangibile di quanto i versi dicono all'inizio e alla fine.

Mason e Gilmour ricordano divertiti che i suoni alieni prodotti dalla chitarra nella fase più "sperimentale" di "Echoes" furono generati per caso inserendo al contrario i cavi nei processori di eco e riverbero. Che detta così sembra uno svarione poco onorevole che ridimensiona la portata del lavoro: in realtà ne accresce a dismisura la dimensione artistica e dimostra che il percorso di ricerca anche nel 1971 metteva a frutto a pieno regime i mezzi a disposizione negli studios della EMI. Di nuovo lontani dalla confidenzialità di "Fearless" e "St. Tropez" qui i Floyd tornano a parlare un linguaggio magniloquente e impegnativo, che mescola ai canoni ormai ben distinguibili del loro stile sonorità nuove che avranno fortuna dal '73 in poi con gli album della consacrazione totale.

"Echoes" ha i suoi momenti migliori - e invecchiati meglio - proprio nei passaggi strumentali più ricercati, dato che la melodia del cantato non aggiunge niente di nuovo a quanto avevano già dimostrato di saper fare. E' negli interventi di Gilmour sul cadenzato e robusto tappeto funkeggiante di batteria e organo che la musica assume profili davvero coinvolgenti, dilungandosi in bellissimi e brevi assoli di sei corde distorte e riverberate. Ed è nelle atmosfere crepuscolari e inquietanti della parte centrale che affiora alla mente la pittura surreale di una natura atavica e misteriosa, che pare quella di un dipinto di Max Ernst. Rintracciando qualcosa di "Ummagumma" e qualcosa di "Atom", qui i quattro capelluti Floyd si staccano definitivamente dalle approssimazioni dei live nelle ballrooms studentesche e nei sotterranei dell'UFO, dando una struttura consapevole - per quanto spesso istintiva - al loro stile sonoro.

"Echoes" rimane nell'immaginario collettivo un capolavoro, mai inflazionato e mai abusato, vuoi per la sua lunghezza, vuoi per la sua sostanziale indivisibilità. Cosa che invece accadde a "One Of These Days" che non a caso fu utilizzata alla nausea per ogni genere di commento audio e viene ancora riproposta come una delle hit irrinunciabili assieme a "Wish You Were Here" e "Money".

Come mio solito, ultima nota in merito alla copertina; che lasciò dubbiosi molti finchè non si appurò che si trattava di una grande orecchia sotto un velo d'acqua. . . . E io dico: mai copertina fu più azzeccata per il disco che contiene. Quale altra metafora visuale potrebbe meglio indicare l'essenza dell'approccio ai Pink Floyd d'allora?

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