A neanche un mese dall'uscita del primo capitolo, i Queen fanno rientro in studio per cominciare a buttar giù il materiale che andrà a finire sul loro secondo album. Le classifiche inglesi abbracciano appieno l'esordio fatto perlopiù di reminiscenze degli esordi, per lasciare al numero due, il difficile compito di tirar fuori la musica di qualità che avevano in mente e che non aspettava altro che di essere suonata. La base operativa è sempre quella dei Trident Studios di Soho, dove i quattro musicisti danno sé stessi per concepire un lavoro che rispecchi un ulteriore passo in avanti rispetto al disco precedente, sia in termini di integrità che di novità musicale. I due mesi di tempo concessi dalla casa discografica vengono investiti dando priorità alla sperimentazione, anche sulla base di una certa consapevolezza progressive che ha sempre fatto parte del personale bagaglio di formazione della band.

La regalità delle note introduttive di "Procession" ci porta per mano all'ascolto di "Father To Son", un brano in cui la potente introduzione fa sì che attraverso l'altalena di atmosfere sospinta dalla voce di Mercury, si ha modo di viaggiare in un vortice musicale fatto di classicità e modernità magistralmente in un tutt'uno. Per "White Queen (As it Began)" la vena creativa del giovane chitarrista May propende per una melodia che rapisce all'istante, come la suadente interpretazione vocale in grado di emozionare con semplicità. A portare una certa distensione di atmosfera ci pensa l'allettante andamento di "Some Day, One Day" (cantata da May) che con il rock urbano di "The Loser in the End" composta ed interpretata dal drummer Roger Taylor, ci accompagnano al termine della White Side. La furia di "Ogre Battle" è una vera ripartenza a tutti gli effetti e ci riporta su ritmi sostenuti, mostrando su tutto quelle armonie vocali in grado di svilupparsi e di diventare uno dei trademarks del gruppo.

Un album che man mano che si va avanti con l'ascolto non cala neanche un pò di tono e non lascia intravedere un attimo di stanca. Una sequenza di brani che riesce a far convivere felicemente le diverse anime creative di un nugolo di musicisti (poco più che) in erba, in grado di esprimere al meglio la necessità di essere essenziali senza mancare di originalità. E se è ancora quest'ultima ad emergere nella teatrale " The Fairy Feller's Master Stroke" in cui tramite le vertiginose acrobazie vocali vengono descritti dal Mercury studente d'arte, i personaggi del noto quadro di Richard Dradd, in "The March of the Black Queen" preparata dalla toccante "Nevermore", è possibile assaporare un magistrale pot-pourri sonoro che può apparire in principio come una slow song dai prevalenti tratti operistici, non nascondendo neanche un certo gusto glam. La svenevole "Funny How Love Is" che strizza l'occhio alla solarità dei Beach Boys, ci porta dritti alla grandeur di "Seven Seas of Rhye" che chiude una seconda facciata concepita interamente dalla geniale inclinazione di un singer abilmente fuori dagli schemi.

E' il disco in cui tutti i brani sono espressione di una profonda quanto singolare vena artistica, mostrandosi nel contempo come l'epitome di una lussuosa e fantasiosa combinazione tra un suono fresco ed immediato ed una sfarzosità operistica, a cui nessuno era riuscito ancora a dare vita. Il volume della competenza strumentale dei quattro esce ancor più amplificato, se si pensa agli abbellimenti delle sovraincisioni vocali e che le registrazioni multitraccia apportano, senza mai indulgere nell'autocompiacimento o nella vanagloria. Un concept album in cui tra un lato bianco ed uno nero viene a dipanarsi l'eterna lotta tra il bene e il male, a cui le sapienti mani del giovane Roy Thomas Baker non possono che contribuire alla conquista di un equilibrio, in una moderna forma di rock che saputo comunque far tesoro del passato.

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