Dopo le sperimentazioni elettroniche, i testi dadaisti, un album pubblicato senza pressoché alcun iniziativa promozionale ("Kid A") e un altro giudicato dai più come poco più che una raccolta di leftovers, i Radiohead tornano tutto sommato a casa con "Hail To The Thief", loro sesto album in studio e, se mi si permette di rischiare, il loro migliore.

Nella sostanza il disco mescola le atmosfere psichedeliche e dilatate di "Ok Computer" con quelle meno lineari e più elettroniche di "Kid A", complete di loop, campionamenti e glitch digitali, proponendo una fusione elegante e decisamente suggestiva di umori e sonorità: possiamo così ammirare brani carichi di pathos come l'iniziale "2+2=5", con una chitarra nervosa a sottolineare la sofferta enfasi della voce di Thom Yorke, sprofondata nel più surreale pathos fino a esplodere in una trascinante cavalcata hard rock che mi ha ricordato (e lo dico a costo di rischiare ancora una volta il linciaggio) i White Stripes più selvaggi.
Questo brano potrebbe fungere quasi da manifesto dell'intero album, della sua riuscitissima fusione di rock ed elettronica, mentre "Sit Down Stand Up" rimescola le carte in tavola, offrendo un trip-hop pianistico tesissimo e allucinato, il testo dipinge inquietanti scene di abuso di potere (walk into the jaws of hell... we can wipe you out anytime) mentre la voce di Thom Yorke si fa sempre più delirante e la canzone raggiunge il punto di ebollizione in uno sfrenato finale dalle sfumature jungle, con la voce a ripetere come in trance the raindrops, the raindrops.
Il resto dell'album, in fin dei conti, non fa che ripetere questo canovaccio in diverse combinazioni, dalla pinkfloydiana ballad "Sail To The Moon", altro punto alto dell'album, all'elettronica minacciosa (e vagamente orientaleggiante) di "The Gloaming", passando per il pathos commovente alla U2 (con un accenno di Cure e Talking Heads) di "Where I End And You Begin", una delle più belle canzoni dell'album, con il curioso funk elettronico di "A Punchup At A Wedding" e la nervosa scarica di rabbia grunge di "Myxomatosis" a fare da contorno al resto.
Unico episodio a mio avviso poco convincente risulta "Scatterbrain", forse un po' scialba e intrisa di già sentito, e la bizzarra conclusione di "A Wolf At The Door", sorta di surreale rap-blues tutto d'un fiato (che può ricordare vagamente la "It's The End Of The World As We Know It (And I Feel Fine)" dei R.E.M.).
I testi, poi, fanno capitolo a parte, ricchi di allusioni e allegorie, di immagini surreali e poetiche, spesso con implicazioni politiche e sociali (il titolo stesso dell'album potrebbe essere un rimando allo slogan di protesta dei militanti anti-Bush dopo i presunti brogli che determinarono la sua vincita alle elezioni del 2000) e mai banali, come da consolidata tradizione Yorke.

Dopo aver ascoltato quest'album più e più volte mi rendo conto di trovarmi di fronte un'opera completa, ricca di umori, di idee, di implicazioni e capace di suscitare pensieri e riflessioni, entrando di diritto quindi nell'olimpo della musica che non può essere definita "pop" perchè non ha lo scopo primario di fornire divertimento. Cibo per la mente, ed è proprio questo che tutti noi chiediamo alla musica, non è così?

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