La presenza in questo sito di due recensioni entrambe alquanto laconiche e disimpegnate (eufemismo), mi induce a vergare qualche riga aggiuntiva sull’opera in questione, introdotta in copertina come si può vedere da una curiosa ed estemporanea “natura morta”, un po’ così… forse il ripiano della cassettiera in camera del nonno etologo di uno dei musicisti? Ah, saperlo…

Ten Years After sono stati uno dei gruppi di successo del cosiddetto british blues di fine anni sessanta, provenienti da Nottingham e convenuti a Londra per giocare la loro carta riuscendo poi a conquistare, anche se per breve tempo, addirittura il mercato USA dove questo disco del 1970 e un paio d’altri prima e dopo sono volati alti in classifica, a premio delle continue ed estenuanti tournée effettuate da quelle parti.

Punti di forza del quartetto erano anzitutto la spettacolarità della chitarra del leader Alvin Lee, a ben vedere più epidermica che altro essendo il suo fraseggio assai agile ma povero motivicamente, poi la solidità ed efficacia della sezione ritmica specie a riguardo del bassista Leo Lyons, gran bell’animale da boogie rock. I punti deboli erano peraltro la voce dello stesso Lee, niente di speciale soprattutto parametrata alle grandi ugole esercitanti nello stesso ambito (Rod Stewart, Robert Plant, Paul Rodgers, Jack Bruce, Chris Farlowe, Steve Marriott eccetera), nonché la sua non eccezionale vena compositiva, che circoscriveva lo sviluppo dei pezzi a poche variazioni toniche, con le linee melodiche dei cantati quasi sempre incatenate alla scala blues ed ai suoi standard espressivi.

Tutte queste caratteristiche si possono verificare pari pari nel disco in oggetto, articolato in otto episodi fra i quali spiccano i due più estesi, caratterizzati da lunghe jam psichedeliche al loro interno. Il più celebre dei due s’intitola “Love Like A Man” e si appoggia ad un accattivante, appoggiato riff monocorde in tonalità di MI, semplice e lineare nell’unisono fra basso e chitarra, perfetto per dei primi esercizi da neofita su questi strumenti (e molti ragazzi lo fecero, a suo tempo… me compreso!). Il ritmo si accende solo nella porzione strumentale centrale, in cui basso batteria ed organo prendono a swingare a tempo raddoppiato sempre sul MI e Alvin, dopo aver azionato un bel distorsore fuzzoso d’antan, si lancia in una fuga psichedelica e libera, a fatica ricondotta al riff d’impianto per un’ultima strofa e la chiusura.

L’altro tour de force s’intitola invece “50,000 Miles Beneath My Brain” e presenta una struttura assai simile; stavolta però non vi è un acme centrale strumentale racchiuso fra intro e ripresa di chiusura entrambe cantate, bensì un unico e continuo crescendo che da un prologo molto quieto, quasi a ballata, si gonfia poi e si estende ad libitum, in jam session su pochi accordi, con il poderoso drive di Lyons al basso ben in primo piano; fino alla sfumata finale che è addirittura doppia, dopo breve riassolvenza, tanto per far durare il pezzo un minuto in più.

Fra gli altri episodi, tutti di durata normale, citiamo il soul rock blues introduttivo “Sugar The Road”, molto scolastico e sviluppato anch’esso su pochissime variazioni armoniche, poi l’up-tempo ben accessibile di “Working on the Road”, il blues semiacustico quasi arcaico “Year 3.000” e la notevole scopiazzatura dello stile di B.B. King in “Me and My Baby”.

Ten Years After sono stati in gruppo di buona, non eccelsa levatura ed il loro successo, discreto ma non del tutto dispiegatosi, è stato sostanzialmente coerente alla loro caratura artistica. E’ sempre un piacere ripassare questi lavori che odorano di primi anni del rock, di registrazioni analogiche su non più di otto piste, di rilassate autoindulgenze strumentali estrapolate direttamente dalla costante, instancabile attività sul palco. Un disco dove ancora il rock respira, rispetta le sue dinamiche, trascina senza assordare.

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