"Abbey Road" è un'opera sopravvalutata. E col trascorrere degli anni, la prospettiva storica conferma questa impressione.

Anno 1969. Uscivano album com "In the court of King Crimson", "Happy sad" e "Ummagumma". Innovazione, arte ellittica, progressione, impronta culturale determinante o quantomeno rappresentativa di un'epoca; con caratteristiche poetiche e tecniche di rilevanza indubbia. "Abbey Road" in questo senso è solo un album che rappresenta i propri autori, all'apice di una carriera certamente sfolgorante e capaci di corroborare ogni gesto con un'aura mistica che confonde le idee e indora qualsiasi pillola.

Cos'ha di tanto geniale ed epocale "Abbey Road"? Un disco più famoso per la sua copertina che per le canzoni che contiene: infatti provate a chiedere a cento persone di citare un brano che ne fa parte e solo una piccola percentuale saprà azzeccare i titoli più conosciuti (Here comes the sun, probabilmente, e Come Together). Viceversa le strisce pedonali dell'omonima strada, quelle, le conoscono anche le zanzare. Musicalmente un sunto dell'abilità beatlesiana di creare uno stile, un marchio di fabbrica; un sunto della forma-canzone mccartneyana e dei vari modus cantandi (e suonandi) che alla fine non avevano nulla di eccezionale nemmeno tenendo in disparte un attimino i King Crimson e i Pink Floyd.

Se pensiamo che due anni prima erano venuti alla luce "The Velvet Underground & Nico" e "The piper at the gates of dawn"... perchè "Abbey Road" viene universalmente considerato uno dei dischi più belli nella storia del rock?

Certo, la bellezza ovvero il valore lirico intrinseco di un'opera non si misura solo per certe sue caratteristiche strutturali. Ma anche all'interno della discografia di Lennon e soci ci sono stati highlights più corposi e marcatamente nuovi. E se non fosse per quella perla di "I want you", l'album in questione sarebbe una raccolta di ballate che rielabora, aggiusta e fissa in via definitiva lo stilema globale del gruppo (soprattutto dei due autori principali) per consegnarlo ai posteri a mò di testamento. Vi si ritrovano dentro le tavolozze già utilizzate in "Sgt. Pepper" e "Revolver", le formule ben agganciate che strizzano l'occhio a varie tipologie di estimatori, ma in primis l'iconografia di culto - manifesta e subliminale - dei Fab Four che ammanta il tutto di una seduttività monumentale e indistruttibile.

Francamente trovo scarso l'appeal di ballad favolistiche che tirano in ballo il giardino della piovra, o le storie di Mister Mostarda... sia dal punto di vista narrativo che da quello sonoro. Oggi più che mai visto che nel frattempo la discoteca si è riempita di capolavori al cui confronto "Abbey Road" è un surrogato canzonettaro di reminiscenze pop-blues e di filastrocche pseudo-psichedeliche.

So bene di essere distonico rispetto alla media: avete preparato i pomodori marci da tirarmi? Fate pure. Io ho solo espresso la mia opinione. E se devo ascoltare un disco dei Beatles tiro fuori il Pepper o Revolver.

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